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    LE SERIE DEI GIUSTI - A TRATTI BELLISSIMO, A TRATTI SFUGGENTE O INDISPONENTE, “LA FERROVIA SOTTERRANEA” NON È SOLO UNA DELLE SERIE MIGLIORI DELLA STAGIONE, È UN VIAGGIO NELL’AMERICA PIÙ PROFONDA CHE CERCA, COME “NOMADLAND” O “MINARI”, DI CAPIRE SE STESSA E LE PROPRIE CONTRADDIZIONI. NON PIACERÀ CERTO A TUTTI, MA SE VI ARRENDETE AL RACCONTO E ALLA FORZA DELLE IMMAGINI VI POTREBBE PIACERE MOLTISSIMO…


     
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    “La ferrovia sotterranea” /“The Underground Railroad” di Barry Jenkins

    Marco Giusti per Dagospia

     

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    Alla fine di queste complesse, sofisticate, ma anche urtanti e faticose dieci ore di “La ferrovia sotterranea” (“The Underground Railroad”), la serie kolossal Amazon che Barry Jenkins, premio Oscar per “Moonlight”, ha tratto dal romanzo del premio Pulitzer Colson Whitehead, le immagini che mi sono rimaste più impresse sono quelle che vedono i protagonisti in fuga o al lavoro immersi nel profondo Sud della Georgia e della Carolina, mai fotografato con tale sontuosità e amore.

     

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    Come se al di là di tutti gli orrori e di tutte le lotte per la liberazione dalla schiavitù prima, per l’integrazione poi, al di là di ogni possibile costruzione letteraria per spiegarci in maniera simbolica il rapporto fra bianchi e neri, il perché del suprematismo e dell’odio, quel che ci rimane di più profondo sono i semini che la protagonista Cora si porta dietro per tutto il viaggio e la sua terra. Come la Tara di “Via col vento”. O come la Frances McDormand che attraversa l’America di “Nomadland”.

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    Ma il lavoro che Barry Jenkins e il suo favoloso direttore della fotografia James Laxton fanno sulla terra, sulla natura, al di là dalle dichiarazioni di malickismo (che Jenkins divide con Chloe Zhao) è qualcosa che sembra proprio far ripartire da zero tutto il cinema afro-americano. Permettendosi addirittura un’inquadratura finale di due ragazze che ci riporta alle origini delle origini, cioè all’odiato D.W.Griffith e alle sue eroine rilette in versione nera.

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    Se il New Yorker si lancia in un elogio profondo di questa rilettura del Sud di Jenkins, paragonando il suo lavoro a quello che ha potuto fare nella pittura di mare addirittura Turner, va comunque detto che è dalla costruzione delle immagini, al di là della complessità dell’intreccio, che ci arriva il fascino più forte e profondo della serie.

     

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    Le dieci puntate sono costruite come dieci capitoli, che si svolgono ognuno (o quasi) in uno stato diverso del sud di prima della guerra di Secessione attraversato dalla schiava in fuga Cora, una meravigliosa e per noi inedita Thuso Mbedu, inseguita da un cacciatore di schiavi triste e depresso, Ridgeway, Joel Edgerton, aiutato da Homer, Chase W. Dillon, un piccolo nero malefico che lo adora.

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    Se la bislacca geografia del racconto è nelle mani della ragazza in fuga e nel tragitto dei suoi inseguitori, e la perdita della famiglia ne costruisce una qualche linearità psicanalitica, sia Cora che Ridgeway sono o si sentono abbandonati, entrambi cercano di ricostruire una qualche idea, anche depravata di famiglia, la grande idea visiva già del romanzo è di materializzare come fosse un film di Zemeckis la celebre galleria sotterranea, quella, solo virtuale, di fatto un network di case di bianchi organizzato da Harriet Tubman, che aiutava gli schiavi in fuga dal profondo sud nella fuga verso gli stati del nord, come una vera e propria ferrovia sotto terra che porta misteriosamente i neri da una parte all’altra degli stati e ne costruisce una qualche identità narrativa tracciandone delle radici profonde.

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    Anche se, apparentemente, i bianchi sembrano più buoni in certi stati e più cattivi in altri, lo sfruttamento, la manipolazione, il desiderio di volere sottomettere tutta una razza continua a girare tra stato a stato. Al punto che la ferrovia non risolverà la fuga della ragazza. Che troverà proprio il suo senso, il suo completamento, nella tormentata figura del cacciatore, a sua volta figlio di un sant’uomo, Peter Mullan, che odia schiavitù e segregazione e parla solo di Grande Spirito che alimenta la vita di tutti.

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    Se la figura di Cora, l’unica che sfugge anche al narratore, e sappiamo da “Moonlight” quanto Jenkins sia bravo nel costruire personaggi, prende forma nella fuga e nel ricostruirsi nella ricerca della madre, nell’assenza di un padre, il vecchio Ridgeway, e nel continuo tentativo di dar vita a una sorta di famiglia, quella del cacciatore, è ancor più condizionata al modellarsi nel sistema americano, un male assoluto che arriverà fino a Trump e al suprematismo da Black Lives Matter di oggi.

     

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    Ma fondamentale sia per la costruzione di Cora come personaggio sia per capire le origini profonde di un dolore ancora presente. In una delle scene più interessanti del film, Cora, Ridgeway e Homer passeggiano come una famiglia per le strade di una cittadina, come ricomposti per gli occhi esterni, padre-madre-figlio, ma noi sappiamo quanto sia esplosiva questa falsa immagine.

     

    A tratti bellissimo, a tratti sfuggente o indisponente, “La ferrovia sotterranea” non è solo una delle serie migliori della stagione, dove il  gran lavoro di Whitehead trova in Jenkins il regista ideale, è un viaggio nell’America più profonda che cerca, come “Nomadland” o “Minari”, di capire se stessa e le proprie contraddizioni. Non piacerà certo a tutti, ma se vi arrendete al racconto e alla forza delle immagini vi potrebbe piacere moltissimo. Anche perché ha una musica meravigliosa del bianco Nicholas Brittel e ogni puntata chiude con grandi pezzi musicali a tema. Alla fine della prima puntata trovate “B.O.B. – Bombs Over Baghdad” degli Outkast. Ma dopo arriveranno Pahrcyde, Marvin gaye, Kool Blues, Hey U, Childish Gambino, fino a chiudere con “How I Got Over” di Mahalia Jackson. E si sprecano gli omaggi continui all’arte afro-contemporanea contemporanea. Per completezza aggiungo che gli sceneggiatori sono sei, tre neri e tre bianchi, due uomini e quattro donne.

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