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    LA VENEZIA DEI GIUSTI - ALLA PRIMA DEL FILM “LA RETE” DEL COREANO KIM KI DUK AL POSTO DELLE MARTELLATE SULLE PALLE, SPECIALITÀ ANCHE NON METAFORICHE DEL REGISTA, RUMOR DI AVVITAMENTI DI CHIODI E BULLONI PERCHÉ LE POLTRONE TRABALLAVANO E SI SCOLLAVANO DALLA PLATEA


     
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    Marco Giusti per Dagospia

     

    THE NET KIM KI DUK THE NET KIM KI DUK

    Ricordate il celebre buco della Biennale di Venezia? Anni e anni con questo ingombrante cadavere che aveva deturpato i ridenti giardinetti che stavano davanti al Casinò. Non ci si poteva fare niente, perché sotto, si era scoperto, e Rondi lo sapeva (ma nessuno gli aveva chiesto niente, quindi…) era stato nascosto l’amianto del vecchio palazzo della Biennale.

     

    Così, un po’ per i costi altissimi dell’operazione, un po’ per un complesso di colpe di tutti e di nessuno, non si riusciva né a costruirci qualcosa né a liberare il buco. Rimaneva come ferita metaforica del nostro cinema. Finalmente, al posto del buco quest’anno si è materializzato la Sala Giardino, un parallelepipedo rosso fiammante con dentro, appunto una sala. Sotto sembra che finalmente siano stati spostati i resti dell’amianto.

     

     

    Oggi pomeriggio, alla prima proiezione del film del coreano Kim Ki Duk, Geumul – The Net, cioè La rete, tra lo stupore generale del pubblico, al posto delle simpatiche martellate sulle palle specialità anche non metaforiche del regista, abbiamo avuto rumor di avvitamenti di chiodi e bulloni perché le poltrone traballavano e si scollavano dalla platea. “Un cacciavite, presto!” ha urlato un critico straniero indispettito. Poi il film è partito.

     

    La rete è quella che un pescatore comunista del nord che vive proprio al confine tra Corea del Sud e Corea del Nord, trova impigliata nel motore della sua barchetta. Non potendo manovrare la barca, il pescatore finisce per superare il confine e passare dal Nord al Sud. I soldati del Nord pensano anche a sparargli, ma l’idea che si possa trattare non di tradimento o di fuga, ma di un banale incidente, riesce a dissuaderli dall’aprire al fuoco. Il pescatore, così, finisce nelle mani della polizia politica di Seul, torchiato come possibile spia. Giù botte.

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    Quando ritornerà a Nord non andrà meglio. Giù altre botte Rispetto agli altri film di Kim Ki Duk sembra meno eccessivo e violento, quasi un buon thriller politico, ben girato e ben girato. Non si capisce perché sia finito nella rete della nuova sezione “cinema del giardino”, quella dei film considerati popolari, dove sono stati ficcati L’Estate addosso di Gabriele Muccino, Robinù di Michele Santoro, In Dubious Battle di James Franco prodotto da Andrea Ierovolino e dalla vedova Bacardi, già cultissimo.

     

     

    Passiamo al primo film di Venezia Orizzonti. Avete trent’anni passati e non avete ancora trovato un marito. Non è un problema, vero? Lo è se, come in questa deliziosa e divertentissima commedia, Laavor et Akim, che diventerà in italiano Un appuntamento per la sposa, diretto da Rama Burshtein, regista del già notevole La sposa promessa, avete trent’anni passati ma abitate a Gerusalemme, siete ebrea ortodossa, cercate un marito ebreo ortodosso, avete una madre pesante, amiche altrettanto pesanti e una simpatica sorella più frikkettona.

     

     

    E questi giovani maschi ebrei ortodossi, con filatteri e cappellone nero, sono decisamente più nerd, più mosci, più mammoni dei nostri nerd, mosci e mammoni che giocano con la playstation o stanno fissi sui social.

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    Insomma, questa buffa e riccioluta Michal, ragazza ebrea di 32 anni, interpretata da Noa Koler, scopre che il suo promesso sposo, tale Gidi, non è innamorato di lei e quindi non la vuole più sposare. Disastro. A questo punto, però, invece, di rinchiudersi a casa piangendo, decide che si sposerà lo stesso alla data stabilita, prenota anzi una festa con 200 ospiti e pensa che dovrà proprio essere Dio a trovarle l’uomo della sua vita. In pratica, ha 22 giorni per trovare uno straccio di marito. Quello che segue, nel film, è una serie di buffi incontri che Michal fa con ebrei ortodossi che potrebbero sposarla, uno più disastroso e nerd dell’altro.

     

    Quello che Rama Nursthein mette davanti allo spettatore è una galleria di maschi, anche belli, curiosamente quasi tutti più belli di Michal, ma di una mollezza totale. C’è quello sordomuto, quello che non riesce a sollevare lo sguardo per vedere la sua promessa sposa. Disperata, Micha va anche a pregare sulla tomba di un venerato rabbino per sfogarsi. E’ proprio mentre si dispera che scopre, al di là del muro che divide le donne dagli uomini, da qui il titolo originale di Laavor et Akim cioè Attraverso il muro, un celebre e bel cantante israeliano, Yoss, che potrebbe essere la sua anima gemella. E comunque la farà ridere.

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    Ma non è certo così ortodosso come lei. Ovvio che tutto finirà bene, visto che è una commedia al femminile così ben costruita su un mondo dove le donne sembrano davvero divise dagli uomini da un muro.

     

    Più forti e dominanti, ma non così felici. Non c’è però alcun sguardo satirico sui suoi personaggi, tutti trattati con affetto da Rama Burshtein, nata a New York ma ormai diventata di fatto israeliana e anche lei ebrea ortodossa. La cosa che stupisce è proprio che sembra una di quelle perfette commedie americane alla Nora Ephrom, per non dire uno di quei film yiddish newyorkesi anni ’30 con Molly Picon, solo trapiantato a Gerusalemme. C’è anche una grande colonna sonora da musicarello colto israeliano. In sala dal 24 novembre.

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