Marco Giusti per Dagospia
Human Flood di Ai Weiwei
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Venezia. Ci siamo. Non solo piove, ma si è abbattuto sul Lido anche Human Flow di Ai Weiwei. Scatenando ogni tipo di commento, tra chi lo vuole pronto per il Leone e chi pronto per l’Oscar. “Poesia allo stato puro… un’opera meravigliosa come Iliade odissea Eneide insieme…”, scrive arditamente Maurizio Porro. Francamente lo trovo un polpettone parecchio pasticciato, anche se pronto e infiocchettato per qualche seratona umanitaria boldriniana e barattiana e per articoli strappacore di Concita.
Un eccesso di riprese di migranti da 22 parti del mondo che prestano la loro miseria e perfino la loro morte a favore di riprese artisticoide di un Ai Weiwei pronto al selfie praticamente con chiunque, anche col cammello nel deserto. Così pieno di tutto che alla fine “niente ti rivela che possa essere l’opera del maggior artista vivente del momento”, scrive saggiamente Variety.
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This Is Congo di Daniel McCabe, passato ieri, incredibile e coraggiosissimo documentario su una guerra che dura da vent’anni e sui mali di un paese rovinato dalla sua stessa ricchezza, al confronto è davvero un capolavoro da Oscar. E non si cerca mai l’effetto artistico nelle riprese, ma solo la realtà di quello che si sta raccontando e dei personaggi intervistati.
Qui non c’è nessuna struttura narrativa, ma neanche nessuna struttura emotiva, purtroppo, a parte il flusso continuo di disperati che vagano in cerca di rispetto e di pace, allontanandosi dalla miseria e dalla guerra al suono di una musica davvero eccessiva. Ridateci Ruotolo!
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Peccato, perché gran parte delle riprese, firmate da una serie di direttori della fotografia che comprendono anche il geniale Christopher Doyle, sono magnifiche, penso solo alle fiamme dei pozzi di petrolio in Iraq o ai migranti africani che si avvolgono nelle coperte dopo il viaggio nel Mediterraneo. Ma tutto questo non riesce mai a costruire un filo logico o narrativo per non dire un’idea di cinema.
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Proprio dove Gianfranco Rosi riusciva, invece, a costruire un discorso sul nostro sguardo di occidentali di fronte al disastro dei migranti o dove Michael Hanecke descrive l’impotenza della borghesia francese di fronte all’invasione o Aki Kaurismaki rivela tutta la sua umanità, Ai Weiwei gira attorno al mondo quasi alla ricerca di mostrare dove sta e cosa sta facendo per l’umanità e per l’arte, diciamo un megaselfie d’artista, esatto contrario, insomma, dell’Austerlitz meraviglioso di Sergei Loznitsa, che traduceva per noi lo sguardo sul Novecento e sui suoi orrori e le sue migrazioni di W.G. Sebald.
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Dove Sebald scopriva il viso della madre nelle riprese naziste nel campo di Terezin, Loznitsa riprendeva il flusso dei turisti occidentali e i loro continui selfie con l’orrore all’interno di un viaggio in un campo di concentramento. E Ai Weiwei si autoriprende mentre immortala l’orrore e la violenza di oggi senza voler cercare una chiave di lettura politica o morale a tutto ciò.
Alla fine anche il suo sembra un viaggio di alta classe intorno all’orrore come i turisti di Loznitsa con la scusa dell’impresa artistico-umanitaria. Un po’ come il carrello (o lo zoom) di Gillo Pontecorvo in Kapò. E’ vero che molte delle sue riprese e i suoi continui droni sulle capanne dei migranti sono notevoli, perché ci mostrano un non visto o non così vedibile dell’orrore di oggi, ma è vero pure che gran parte di quello che fa non sviluppa mai cinema.
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Proprio là dove This Is Congo di Daniel McCabe diventa un meraviglioso racconto, perfettamente spiegato, di un disastro epocale, che coinvolge non solo il Congo, ma anche tutti i paesi vicini, soprattutto Ruanda e Uganda, corresponsabili della guerra e di tutta la situazione. Esaltare una trombonata come Human Flow significa vanificare tutto quello che Rosselini, Ivens, Jean Roch hanno provato a fare con il cinema. Significa mettere non l’uomo e la sua realtà al centro dello schermo, ma l’artista che si fa filmare. Sì, allora meglio Ruotolo.
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