Estratto dell'articolo di Giandomenico Curi per “il Venerdì di Repubblica”
inti-illimani
È ancora vivo e stretto il legame tra gli Inti-Illimani e l'Italia. Una forza misteriosa avvicina il nostro Paese a questo gruppo diventato mito: basta il suo nome per evocare il Cile e la sua storia. Soprattutto nel periodo del golpe, scattava automatica l'associazione mentale: «Cile? Inti-Illimani!». E cinquant'anni dopo sono ancora lì a fare avanti indietro tra Roma e Santiago, come le note in fila sullo spartito del tempo.
Alla vigilia di un nuovo tour, ne parliamo con Jorge Coulón portavoce del gruppo, formato nel 1967 nelle aule dell'Università insieme a Horacio Durán, José Seves, José Miguel, Horacio Salinas e Max Berrú. Gli stessi che nel 1973 arrivano in Italia e ci restano per 15 anni. «Ho vissuto il mio esilio tra i 25 e i 40 anni» ci dice Jorge «e non sono solo 15 anni, ma una parte importante della vita, quella in cui si diventa adulti: mi sono ritrovato cittadino del mondo nell'Italia degli anni Settanta».
PINOCHET E ALLENDE
Certo, anche se dall'anno scorso c'è un governo di centrosinistra alla guida del Cile, il vecchio sogno socialista di Allende sembra tramontato per sempre. Eppure gli Inti sono nati in quel sogno, dentro il movimento della Nueva Canción Chilena che ha accompagnato la nascita di Unitad Popular e l'avventura presidenziale di Allende.
"Non c'è rivoluzione senza canzoni", lo slogan più gridato. Erano un gruppo di studenti innamorati dei suoni andini, anche se, fin da ragazzo, Jorge andava matto, oltre che per la musica messicana, per un certo Lucho Gatica, el rey de los boleros che spopolava alla radio, e che ritroverà in Italia frequentando Gigi Proietti, anche lui accanito estimatore del crooner cileno.
(...)
inti-illimani
Nel 1973, dopo un lungo tour glorioso nei Paesi latinoamericani, la scelta di venire a suonare in Europa, Italia compresa. Doveva durare poche settimane: diventerà, come il No Ending Tour di Dylan, una tournée infinita. Arrivano il 5 settembre a Roma: li aspettano i compagni del Partito comunista e le feste dell'Unità. «Appena scesi dall'aereo, ci hanno messi su un pulmino diretto a Milano, dove la sera abbiamo fatto il primo concerto. E due giorni dopo il primo disco in Italia: Viva Chile!». Sarà il golpe dell'11 settembre a determinare la copertina: la chitarra andina, la colomba ferita e la bandiera del Cile. Venderà un milione di copie.
(...) «Eravamo una generazione felice, ma in un attimo è cambiato il mondo. In America Latina ci sono stati golpisti e dittatori di ogni tipo, ma mai una giunta fascista così brutale e criminale».
La sera stessa del golpe gli Inti fanno un concerto a Roma, al Tiburtino Terzo. Il giorno dopo comizio e concerto a Piazza Santi Apostoli con Gian Maria Volonté in prima fila che piange.
lucio dalla
Da allora non si sono più fermati. Concerti e manifestazioni, ovunque, «a suonare gli stessi brani come zombie». Feste dell'Unità di ogni tipo (segnate da una passione e una partecipazione mai più ritrovate): da quelle ricche con la Ferrari in mostra a quelle periferiche con la grigliata e il liscio. Forse questo stakanovismo militante li ha salvati dalla depressione.
Nello stesso tempo cresceva un rapporto speciale con il nostro Paese. Leggo da un librino edito da Arcana nel 2003, Viva Italia. 30 años en vivo: «Abbiamo fatto concerti e successo in mezzo mondo, ma in Italia era tutta un'altra cosa: entusiasmi e successi come non c'era mai capitato di vivere e che purtroppo vivevamo ossessionati dall'orrore che ogni giorno si consumava in Cile». Insomma, un rapporto forte e intenso, ma anche contraddittorio che, con il tempo, si avvicina sempre più a un esilio vissuto come un male incurabile. E forse anche la loro musica, per quanto all'inizio nuova e sorprendente per il pubblico italiano, comincia a spegnersi, a diventare ripetitiva già sul finire degli anni Settanta.
inti illimani
Ecco allora, nel 1977, la storia del Cucciolo Alfredo di Lucio Dalla, con i famosi versi ("La musica andina, che noia mortale/Sono più di tre anni che si ripete sempre uguale") che, un po' scherzando e un po' no, esprimevano una certa insofferenza diffusa e soffusa. Gli Inti-Illimani ci restano male.
«Soprattutto perché non era giusto nei nostri confronti. La musica andina non da tre anni, ma da cent'anni si ripete più o meno uguale. Così funziona la tradizione. Ne abbiamo parlato molti anni dopo con Lucio, nella mia casa di Valparaíso», ricorda Jorge. «Mi ha detto una cosa che non so quanto sia vera: che lui non parlava di noi, ma dei tanti che sono arrivati dopo».
Ci sono poi un altro paio di canzoni italiane, in qualche modo legate alla tragedia cilena e all'esilio nel Belpaese dei suoi portavoce. La prima, più beffarda, è di Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi: si chiama Compagno sì compagno no compagno un caz e a alla seconda strofa se la prende con il "profugo cileno" allora quasi di moda: "Io c'ho il profugo cileno a casa mia, è arrivato nel ‘73 / E da allora lui non è più andato via / Antonietta, fammi star da te".
ricky gianco
L'altra, del 1992, è invece di Roberto Vecchioni (Voglio una donna) e chiude la prima strofa così: "La voglio come Biancaneve coi sette nani / Noiosa come una canzone degli Inti-Illimani". Citazione, ci dice oggi Coulón, «senza senso perché nel 1992 quella stagione era finita da un pezzo; e comunque quei versi sono sessisti e anche razzisti».
In un libro recente, Sulle corde del tempo, scritto da Jorge insieme a Federico Bonadonna, è riportato un piccolo incidente linguistico a proposito di Chile Resistencia, disco che conteneva una serie di brani militanti da diffondere clandestinamente in patria.
La canzone che dà il titolo al disco ha un refrain che finisce con un crescendo musicale mentre il testo ripete "Por Chile, por Chile, Chile Chile": in spagnolo funziona benissimo, ma alle orecchie italiane suona "Porcile, porcile…". Sempre in quel libro si narra dell'incontro a Roma al ristorante Cicilardone con Malcom McLaren, il manager dei Sex Pistols: alla fine del pranzo, la proposta di fare da testimonial, lui e gli Inti, per una linea di moda andina. Inevitabile un no.
roberto vecchioni
(...)