1 - IN MOSTRA A MILANO
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Si è aperta tre giorni fa (e proseguirà fino al 27 febbraio 2022) alla Fondazione Prada di Largo Isarco 2, a Milano, la mostra dedicata a «Domenico Gnoli». La retrospettiva riunisce oltre cento opere realizzate da Gnoli dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni.
Una sezione cronologica e documentaria con materiali storici, fotografie e altre testimonianze contribuisce a ricostruire il percorso biografico e artistico di Gnoli. La ricerca alla base del progetto concepito da Germano Celant è stata sviluppata in collaborazione con gli archivi dell'artista a Roma e Maiorca, custodi della storia personale e professionale di Gnoli.
domenico gnoli
2 - GNOLI E IL PARTICOLARE CHE DIVENTA UNIVERSALE
Vittorio Sgarbi per “il Giornale”
Mi iscrissi all'università nel 1970, l'anno in cui morì Domenico Gnoli. Non potevo avere miglior fortuna. A Bologna insegnava Francesco Arcangeli, il primo allievo di Roberto Longhi. Avrei imparato tutto da lui. E intanto, anche se nessuno ne parlava, ci aiutava ad avere gli strumenti per capire un grande pittore come Gnoli, di cui nessuno parlava in quegli anni, perché il collegamento e la continuità tra arte antica e moderna erano i formidabili accostamenti che Arcangeli ci proponeva, primo fra tutti quelli fra Piero della Francesca e Mondrian.
franco maria ricci
Se l'avesse conosciuto, sarebbe stato altrettanto efficace e pertinente il collegamento Piero della Francesca/Domenico Gnoli. Ma il contemporaneo era altro, allora: Bonito Oliva non era ancora all'orizzonte; Barilli si baloccava con artisti nuovi-nuovi, confondendo l'arte con la moda; Calvesi era occupato con la seconda scuola romana; e, a Bologna, arrivava come un guru, coni capelli lunghi raccolti in una coda e tutto vestito di nero, Germano Celant, inventore dell'Arte povera, di gran successo, ma mortifera e imbarazzante per Arcangeli, che si era immerso, via Pollock, tra gli ultimi naturalisti, da Morlotti a Mandelli.
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Nessun critico di quegli anni si era accorto di Domenico Gnoli se non l'originale, e tenuto a distanza, Luigi Carluccio. Ricordo che quando spopolava a Bologna, tra 1973 e 1974, alla Galleria d'arte moderna, Marina Abramovich, nuda, con il suo compagno Ulay, vidi per la prima volta Carluccio che era venuto per la prima edizione di Arte Fiera.
Luigi Carluccio
Renato Barilli, teorico e critico delle avanguardie, con un tono moralistico e preoccupato, in quegli annidi velleitaria contestazione del capitalismo, metteva sull'avviso noi che lo seguivamo: «state lontani: quello è un critico di arte commerciale». Un marchio d'infamia, nell'illusione di stare dalla parte di un'arte pura, incontaminata e intimamente sovversiva. L'avviso poteva apparire ingenuo, ma indicava una frontiera, e uno scontro critico che si faceva ideologico. D'altra parte i tempi erano quelli. L'arte era politica. Troppo lontano, e aristocratico, Domenico Gnoli.
In un repertorio di vent' anni di mostre in Italia, pubblicato nel 1970, non c'era traccia di Gnoli, morto proprio quell'anno. Rimozione? Intolleranza? Pregiudizio. Avremmo dovuto aspettare fino al 1982 l'originale e libera proposta di Franco Maria Ricci, con l'avventura di una rivista d'arte senza precedenti, FMR, che avrebbe consolidato una nuova sofisticata visione dell'arte, anche contemporanea, attraverso la rivalutazione di episodi marginali ed eccentrici. Ma fondamentali.
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Fu proprio in quella sede che trovarono spazio un artista nuovissimo, da me subito proposto a Palazzo Grassi a Venezia, Luigi Serafini, con la invenzione del monumentale Codex Seraphinianus, i cui effetti continuano ancora oggi a diffondersi, e un grande maestro della generazione precedente, coetaneo degli esponenti celebrati delle avanguardie, lo sconosciuto (in Italia) Domenico Gnoli.
renato barilli
Ricci chiese a Italo Calvino e a me di scriverne, prima sulla rivista, poi per una grande monografia, sontuosamente illustrata, come per una doverosa riparazione. Pubblicazioni recenti, di gusto provinciale, con grafica e impaginazioni improbabili, cercano oggi di mortificarlo. Quasi per vendetta contro la sua magnificenza, con opere che chiedono silenzio e isolamento e non di essere accatastate come in un magazzino. Fatto sta che la miopia e la disattenzione della critica hanno a lungo colpito, e ancora oggi sembrano non comprendere, un artista originalissimo, che si era mosso fuori dei canoni precostituiti e che oggi è, dopo il Giorgio de Chirico metafisico, l'artista italiano con le quotazioni più alte sul mercato internazionale, tra i quindici e i venti milioni di dollari.
domenico gnoli alla fondazione prada
Il riconoscimento del mercato affianca Gnoli agli artisti italiani di maggior successo, e senza oscillazione di fortuna, in quegli stessi anni: Lucio Fontana, Alberto Burri, Piero Manzoni, Enrico Castellani. Leggendo questi nomi, a fianco di quelli degli esponenti dell'Arte povera, è evidente che Gnoli, protagonista riconosciuto in Germania e in America, appartiene a un'altra storia, ed esprime una diversa concezione dell'arte, favolosa e mitologica: «Voglio dipingere enormi chiome notturne, immensi letti su cui potrebbe sdraiarsi un gigante.
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Ricordate Gulliver a Brobdingnag, quando incontra un contadino più alto di un campanile? Swift constata: "I filosofi hanno ragione di affermare che ogni cosa è grande o piccola solo in rapporto a qualcos' altro"».
Siamo nel 1964, quando Gnoli pronuncia queste parole. Il processo di isolamento e di amplificazione determina negli oggetti uno straniamento che li rende quasi irriconoscibili, soprattutto se riportati in un contesto reale. Ecco allora che le grandi tele di Gnoli sono come oggetti misteriosi, immagini astratte per troppa fedeltà. E vogliono solitudine.
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Avvicinandosi ci si avvicina al segreto delle cose, alla loro essenza. Per Gnoli «le cose ordinarie in se stesse, ingrandite per l'attenzione che si dedica loro, sono più importanti, più belle e più terribili di quanto avrebbero potuto renderle qualsiasi invenzione e fantasia». L'universo si può chiudere in una stanza: armadio, letto, pettine, tavolo, camicia, scarpa, abito... È un «voyage autour de sa chambre» che riduce il mondo e lo amplifica. Lo riduce per la quantità delle cose e lo amplifica per la dimensione di quelle superstiti.
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Le rivelazioni degli oggetti non possono avvenire, rigorosamente, che al chiuso, meglio con luce artificiale; e nei leggeri margini concessi allo spazio non si insinua mai l'apertura di una porta o di una finestra. Questa è la risposta di Gnoli alla Pop Art.
Il suo intervento può essere esteso a qualunque oggetto: fissa alcuni generi su cui elabora delle serie: inizia con i capelli, le pettinature, il corpo; e dal 1964 al 1969, Coupe au rasoir n. 1 (1964), Hair Partition no. 1 (1968), Left Side Partition (1969), Center Partition (1969), si fissa sulla riga che spartisice i capelli e su una breve porzione di fronte, scendendo fino alle sopracciglia in Capigliature maschile (1966), o al limite degli occhi in Portrait de Louis T. (1967). Contemporaneamente, Gnoli osserva le acconciature di spalle: Indefrisable (1964), La toison 1965), Busto femminile di dorso (1965) Curly Red Hair (1969), Braid (1969), Red Hair on Blue Dress (1969), Curl (1969), Come in Mise en plis (1964), è il mondo visto dall'altra parte.
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La capigliatura invade lo spazio come un cespuglio, una siepe, una pianta: non ha più alcun rapporto con il corpo che la porta. Vedere le cose di spalle, e in particolar modo i capelli, è uno dei punti di osservazione prediletti da Gnoli. I volti degli altri sembrano non interessarlo. Dipingere una faccia è descrivere, dettagliare, cercare il particolare, il distintivo; dipingere un oggetto è individuarne l'archè, il nascosto principio costitutivo che, come una idea platonica, presiede a ogni singolo oggetto.
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È Gnoli stesso che afferma: «in un momento come questo di iconoclastica antipittura che vorrebbe rompere tutti i ponti con il passato, io vengo a collocare il mio lavoro in quella tradizione "non eloquente" nata in Italia nel Quattrocento e arrivata fino a noi passando da ultimo per la scuola metafisica». La Pop Art è un'occasione di recupero degli oggetti per ricostruire la forma, che per Gnoli è italiana e quattrocentesca: «l'oggetto quotidiano ingrandito mi dice di più su me stesso di qualsiasi altra cosa, mi riempie di paura, di nausea e di estasi». La ripetizione, l'ossessione dei motivi sono gli strumenti per l'indagine del cuore, accada quel che accada nel mondo.
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Ma alla fine i più sensibili termometri dei tempi sono proprio queste anime appartate, apparentemente indifferenti ed estranee, lontane dagli eventi e dal corso della storia; in realtà infallibili testimoni e antenne sensibilissime a ogni mutamento.
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Domenico Gnoli appartiene a un tal genere di artisti, e cerca infatti di eludere la storia nell'arco di sei anni, prevalentemente in America: i suoi ultimi anni di attività e di vita, con la creazione di immagini imperturbabili e omogenee, quotidiane per i contenuti, ma eterne per la forma, quasi sottraendosi a un'evoluzione stilistica e agli incidenti del tempo. I suoi oggetti sono tutto meno che oggetti di consumo, come appaiono nelle opere dei rappresentanti della Pop Art. Niente si consuma, in Gnoli, niente deperisce.
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