1 - DALLA MINIMUM TAX 125 MILIARDI ALL'ANNO
Francesco Semprini per “La Stampa”
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La Global minimum tax al centro dell'accordo di Roma è un'imposta che mira a garantire più equità per le multinazionali. Ovvero creare maggiore corrispondenza tra i Paesi in cui vengono realizzati gli introiti e quello in cui si pagano le tasse.
mario draghi joe biden
Il primo dei due capisaldi riguarda la tassazione di circa cento multinazionali (con entrate superiori ai 20 miliardi di euro) che può avvenire anche negli Stati dove fanno profitti e non solo in quelli in cui hanno la residenza fiscale.
Il secondo prevede che i governi dei Paesi nei quali svolgono attività multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato possano applicare una tassa minima di almeno il 15%. A giugno la proposta sulla tassa minima è stata appoggiata dal G7 e ai primi di ottobre ha avuto il via libera da 136 Paesi sui 140 del Quadro Inclusivo Ocse/G20.
serena cappello mario draghi brigitte e emmanuel macron sergio e laura mattarella
Un'intesa resa possibile dall'adesione di Irlanda, Estonia e Ungheria, che per lungo tempo si erano opposte. Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka non hanno aderito all'accordo, ma chi lo ha fatto rappresenta oltre il 90% dell'economia globale. L'introito previsto è pari ad almeno 60 miliardi di dollari solo per gli Usa.
L'intesa consentirà di redistribuire ai Paesi del mondo intero i benefici per oltre 125 miliardi di dollari realizzati da 100 aziende multinazionali tra le più grandi e più redditizie al mondo. L'obiettivo è inoltre scoraggiare le multinazionali dal trasferire i profitti - e le entrate fiscali - verso paesi a bassa tassazione.
tassa minima globale
Sempre più spesso, i proventi da fonti immateriali come brevetti di farmaci, software e royalties sulla proprietà intellettuale sono migrati verso giurisdizioni più favorevoli. Resta poi da creare un meccanismo di risoluzione delle dispute a livello internazionale.
Con la nuova minimum tax sparirà la digital service tax europea che aveva provocato le critiche degli Usa perché colpiva le grandi aziende tecnologiche americane. L'accordo deve essere ora trasformato in legge nei vari Paesi. Il progetto per una tassa minima globale sulle grandi società era stato proposto dal segretario al Tesoro Usa Janet Yellen, ad aprile scorso, nell'ambito della politica della nuova amministrazione Biden,che ora deve fare i conti con lo scoglio dei repubblicani al Congresso.
2 - C'È L'ACCORDO DEI BIG SULLA MINIMUM TAX MA SARÀ UN AUTOGOL
Carlo Lottieri per “Libero quotidiano”
monopolio faamg
L'accordo era nell'aria ed è arrivato. I responsabili dei maggiori venti Paesi hanno dato il loro appoggio all'accordo sulla cosiddetta «minimum tax», che nell'arco di due anni impone di tassare le multinazionali con un'aliquota minima del 15%, obbligando a versare le imposte dove si opera.
Gli Stati Uniti sono soddisfatti perché le loro imprese avranno molto meno interesse a delocalizzare, e quindi riporteranno in patria molte attività; gli altri Paesi, egualmente, sperano di poter trarre un qualche beneficio, potendo spremere colossi come Amazon e Facebook per gli utili che realizzano nel mondo.
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Nell'insieme s' ipotizza che questo potrebbe comportare maggiori entrate complessive, per l'insieme degli Stati, dell'ordine di oltre 120 miliardi di euro. Nel mirino, ovviamente, vi sono i cosiddetti «paradisi fiscali», ossia quei Paesi - dall'Irlanda all'Olanda, al Lussemburgo - che adottano aliquote di favore e, in tal modo, risultano attrattivi per quelle realtà che sono ovviamente orientate a ridurre i costi e, in tal modo, essere particolarmente competitive.
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La decisione dei principali Paesi europei di accettare la «minimum tax» è comprensibile. Per Francia e Italia, ma non solo, la concorrenza proveniente da realtà che tassano assai meno è difficile da fronteggiare. Certamente esse potrebbero imitare i sistemi fiscali meno esosi, ma questo esigerebbe una revisione dei propri bilanci (tagli di uscite e sprechi) che non sono in grado di fare.
In questo modo, la scelta della «minimum tax» soddisfa sia le aspirazioni protezioniste degli Stati Uniti, da questo punto di vista poco cambiati nel passaggio da Donald Trump a Joe Biden, sia il conservatorismo di quei Paesi europei che non hanno alcuna intenzione di limitare il peso dello Stato sull'economia. C'è poi un'altra questione, ancor più importante.
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Quello che molti governanti delle grandi potenze hanno in mente, soprattutto nel Vecchio Continente, è un processo di armonizzazione dall'alto che, a detta di molti, è giudicato necessario per poter avere una vera concorrenza tra imprese. La tesi è che le aziende italiane o francesi, sottoposte a un regime fiscale pesante, non sarebbe in grado di competere con quelle irlandesi, svizzere o britanniche, che devono consegnare una parte minore dei loro profitti all'erario.
Che fare, allora? Dirigersi verso una tassazione uniforme è presentata come una soluzione equa ed efficiente. Il guaio sta nel fatto che, purtroppo, nessuno pensa di estendere le norme irlandesi all'intero continente, ma semmai si vuole piuttosto gravare ogni impresa degli stessi oneri che devono versare le società francesi o italiane.
IL PREMIER OLANDESE RUTTE E MARIO DRAGHI
Invece che scommettere sulla concorrenza fiscale tra ordinamenti, si punta insomma a uniformare - in peggio - tutte le legislazioni tributarie. Il primo effetto di questa decisione consisterà nel danneggiare alcune delle aziende più dinamiche, con conseguenze che pagheremo tutti noi. Ma la seconda conseguenza è ancor più rilevante, dato che l'economia globale ha bisogno di competizione a ogni livello e, in particolare, è necessario che i Paesi più statalisti cambino rotta. Da questo punto di vista, la «minimum tax» va esattamente nella direzione opposta.