Luigi Ferrarella per corriere.it
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Più ancora della decisione del giudice delle indagini preliminari - che non accoglie la richiesta di archiviazione e impone invece alla Procura di formulare nei confronti di due agenti di polizia l’imputazione di omicidio colposo per non aver impedito la mattina del 23 agosto 2020 il suicidio di una persona accompagnata in Questura per essere identificata -, pesa l’argomento valorizzato dal gip Roberto Crepaldi: i due agenti, giovanissimi e peraltro alle prime armi, invece di controllare con attenzione i monitor di sicurezza avrebbero avuto lo sguardo concentrato per lo più sugli schermi dei propri telefonini.
La contestazione penale è dunque costruita sull’ipotesi che nei due poliziotti, addetti a controllare le persone trattenute nelle camere di sicurezza in attesa della identificazione, il non aver impedito un evento che avevano l’obbligo giuridico di impedire sia equivalso a cagionarlo.
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Per il giudice, intanto, non è vero che i due poliziotti non potevano avere sentore degli intenti autolesionistici del 34enne algerino, visto che la stessa annotazione di servizio segnala come l’uomo (la cui famiglia è ora patrocinata dall’avvocato Roberto Lopa) colpisse con mani e piedi la porta e la finestra della camera di sicurezza: «Uno stato di agitazione che avrebbe richiesto una vigilanza ancora più attenta e mirata» rispetto a quella richiesta dalle circolari ordinarie.
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Poi il giudice valorizza la tempistica, visto che da un lato l’uomo cominciò ad attuare le manovre per il suicidio alle 10.47 ed esse durarono molti minuti, e «gli spasmi causati dallo strozzamento impegnarono altri tre minuti e sono chiaramente visibili dal video della sorveglianza», mentre dall’altro lato la relazione medico-legale ha quantificato in 30 minuti il lasso di tempo nel quale sarebbe potuto essere soccorso l’algerino, che fu invece trovato senza vita un’ora e 10 minuti dopo il suicidio.
«Non può allora non sottolinearsi - ritiene il gip - la scarsissima attenzione dedicata degli agenti agli schermi della videosorveglianza, impegnati com’erano nella maggior parte del tempo a osservare lo schermo del proprio telefono». È vero che la posizione dell’uomo, impiccatosi da seduto, poteva apparire ambigua, tanto più che il colore della maglia si confondeva con le sbarre, «ma, se gli agenti avessero prestato attenzione continuativa allo schermo che proiettava in tempo reale le immagini della videosorveglianza, si sarebbero certamente avveduti delle articolate, durature e inequivoche azioni preparatorie ed esecutive dell’impiccamento da parte dell’uomo».
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La Procura per chiedere l’archiviazione rilevava anche che i due agenti (difesi dai legali Riccardo Truppo e Giuseppe Barillà) nello stesso periodo di tempo avevano dovuto badare alle pratiche burocratiche per l’arrivo di un altro fermato in camera di sicurezza, ma sul punto il giudice obietta che sarebbe bastato che un agente sbrigasse le pratiche e l’altro mantenesse la sorveglianza del fermato sui monitor di sicurezza interna. Il giudice concorda invece con il pubblico ministero Paola Pirotta sul fatto che anche altri fattori, più strutturali e indipendenti dal ruolo dei due agenti, abbiano concorso al tragico esito, primo fra tutti il fatto che in Questura «fosse consentito che in una camera di sicurezza vi fossero sbarre orizzontali alle finestre, certamente congeniali a chi abbia intenti di suicidio».
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Allo stesso modo ha pesato la scarsa esperienza degli agenti tutti molto giovani e all’inizio della carriera, una addirittura ancora in formazione, il che «li ha portati a una franca sottovalutazione del rischio che si stava concretizzando sotto i loro occhi e a concentrarsi invece su adempimenti meno noiosi o sul loro telefonino». Infine ci sono anche oggettivi «limiti nelle dotazioni tecniche», con «la visione delle immagini attuata mediante uno schermo di medie dimensioni, suddiviso ulteriormente in nove quadranti, sicché anche l’osservazione delle singole celle risultava certamente faticosa, e mancano anche sistemi automatici di segnalazione di comportamenti anomali che pure la tecnologia offrirebbe».
Ma se questo da un lato per il giudice non eliderebbe ugualmente la responsabilità dei due agenti a titolo di colpa, dall’altro lato per il giudice resta comunque dirimente il fatto che «le immagini delle telecamere installate nella sala controllo consentano di appurare come i due agenti prestino al monitor un’attenzione soltanto sporadica e invece occupino la maggior parte del tempo utilizzando ciascuno il proprio telefono cellulare oppure conversando».
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