Francesco Melchionda per www.lintellettualedissidente.it
Incontrare Carla Vistarini significa navigare a mare aperto e affrontare, senza filtri e maschera, cinquant’anni, se non di più, di canzone italiana, televisione, teatro, cinema e libri. In un sabato d’ottobre, caldo e soleggiato come solo nelle città levantine, Carla ci accoglie a casa sua, nel suo nido (così mi è parso), dalle parti di Prati. Ci “addivaniamo”, direbbe Roberto D’Agostino, in un grande salone. Le pareti, bianche come lo zucchero filato, sono stracolme di libri, di ogni genere ed epoca. Qua e là, cimeli, i Telegatti vinti, la statuetta del David di Donatello, e locandine di spettacoli teatrali.
canzoni di carla vistarini
L’antidiva per antonomasia – mi piace definirla così – apre i cassetti dei ricordi, rispolvera aneddoti, scava nel suo passato, indugia a riflessioni che, probabilmente, non aveva mai maturato. Curiosa e avida di letture come pochi, Carla Vistarini ha speso la sua vita artistica e personale mettendo a disposizione degli altri le sue parole, la sua creatività, e, anche se non sembra, la sua sensibilità. Tutti, o quasi, si sono appoggiati al suo talento.
Mina, Patti Pravo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Mia Martini, Gigi Proietti, sono solo alcune delle stelle italiane rese celebri dalla sua poesia e semplicità. Come il sommo JJ Cale, Carla non hai mai voluto che i riflettori sulla sua vita fossero accesi. Anzi. Alle luci della ribalta, all’apparenza, ai colori ingannevoli e fatui dello star system, ha sempre preferito il silenzio, il riserbo, frutto anche, forse, di un’educazione rigida, severa. Alla mondanità, l’amicizia, l’amore, i viaggi.
Carla Vistarini, la sua carriera artistica ha inizio sul finire degli anni Sessanta. Prima di addentrarci nel mondo autoriale, le chiedo: com’è nata la passione per la musica?
La passione è nata molto presto, in famiglia, da piccola: canzoni napoletane, arie d’opera, qualche standard americano come The Way You Look Tonight con l’orchestra di Ray Conniff, che apriva i programmi serali alla radio. Una festa. Si ascoltava tanto la radio, allora. Poi, negli anni dell’adolescenza sono piombati sul pianeta Terra i Beatles, e fu un colpo di fulmine. Quella musica era mia, per testi e sonorità. E lo era anche come fattore generazionale: mi ci identificavo totalmente.
carla vistarini foto di ludovica borghesi
Anche lei, come tanti della sua generazione, mitizzò i quattro di Liverpool?
Sì, assolutamente. Avevo una foto di George Harrison incollata sull’ultima pagina del diario scolastico.
Perché I Beatles e non I Rolling Stones?
I Rolling Stones sono arrivati leggermente dopo. Mi piacevano anche loro, ma i Beatles per me erano fuori gara, Numeri Uno. Nel ’65 riuscii ad andare a uno dei quattro concerti che tennero a Roma all’Adriano. Ricordo che convincere qualcuno in famiglia a darmi i soldi del biglietto fu un’impresa. A quell’epoca avere 15, 16 anni era una sorta di limbo sociale sospeso tra infanzia e giovinezza, senza più i privilegi dell’essere bambino e non ancora l’autonomia dell’età adulta. Noi, primi baby boomers, non eravamo quel target sociale, culturale e anche economico, che sono i “giovani” oggi. Quella piccola grande rivoluzione iniziava proprio in quegli anni.
I Beatles, ad essere sinceri, non erano, però, dei grandi performer dal vivo, a differenza dei Cream, dei The Who, etc…
Opinioni, e io non sono d’accordo. Avendoli ascoltati dal vivo posso dire che erano travolgenti. Qualsiasi virtuosismo tecnico perde la partita opposto allo tsunami di una fenomenale forza espressiva. Consideriamo poi che, in quegli anni, le apparecchiature tecniche erano elementari, confrontate con ciò di cui si dispone oggi. Quasi primitive. Tutto veniva ingigantito. Anche gli errori.
Carla Vistarini e Oreste Lionello - Salone Margherita
Roma, forse anche più di Milano, è stata la culla della musica leggera italiana. Come si è trovata, poi, nei suoi vent’anni, a scrivere canzoni per Mina, Vanoni, Patti Pravo, Mia Martini, Renato Zero?
Sul finire dei Sessanta, c’erano dei luoghi a Roma, come il Piper e gli studi radiofonici di Bandiera Gialla, dove si creavano le occasioni di incontro per i ragazzi della mia generazione e per ascoltare insieme la musica che ci piaceva: il rock, il beat, il rythm and blues. Non esistevano le radio private, l’unica emittente era La Rai. Al Piper c’era il gruppetto di ragazzini di cui facevo parte con i futuri colleghi e star come Renato Zero, Patty Pravo, Mita Medici, Roberto D’Agostino, e altri, tra cui Luigi Lopez, che è stato il mio coautore storico in tante delle canzoni che poi avrei scritto.
A Bandiera Gialla, invece, conobbi Gianni Boncompagni e Arbore che erano i conduttori del programma e che, essendo molto più grandi di noi ragazzini del pubblico, erano diventati una sorta di punto di riferimento musicale.
Fu proprio Gianni Boncompagni, infatti, successivamente a indirizzarci alla RCA perché, ascoltando le nostre canzoni, le aveva trovate belle, orecchiabili. La RCA Italiana, altro luogo leggendario. Ricordo il fermento che vi si respirava. Era come essere ai blocchi di partenza per una corsa straordinaria nella musica e nella vita. E ai blocchi accanto, pronti a scattare, con me, con noi, c’erano De Gregori, Venditti, Dalla, Paolo Conte, Patti Pravo, Mia Martini, Amedeo Minghi, Riccardo Cocciante e altri. Scrivere per molti di loro è stato, fortunatamente, inevitabile.
caterina caselli mia martini
Perché, secondo lei, i cantanti, sempre, o quasi, sentono la necessità di affidarsi a un autore? Incapacità, ignoranza, timidezza?
I cantanti puri, gli interpreti, sono come gli attori, hanno sempre bisogno di qualcuno che scriva per loro qualcosa di bello. Mentre i cantautori fanno tutto da soli, i cantanti “creano” il loro apporto artistico alla canzone col talento della loro interpretazione. E’ “scrivere” anche quello. La critica ha sempre fatto dei distinguo artistici tra cantautori da una parte e cantanti e autori dall’altra, privilegiando i cantautori, ma penso che sia stato e sia ancora , una sorta di pregiudizio veterointellettuale che poi il tempo pensa a riequilibrare. Le canzoni più belle, che siano di cantautori o di autori puri, restano per generazioni, le altre no.
Cosa le chiedevano i produttori discografici quando si cimentava nella scrittura di un testo?
Niente. Aspettavano. Con Luigi Lopez suonavamo, componevamo e scrivevamo tutto il giorno, e per noi non era un lavoro, ma un divertimento. I critici più severi eravamo noi stessi. Solo quando eravamo soddisfatti della canzone finita, andavamo a proporla al discografico. Alla RCA c’era Ennio Melis, con Lilli Greco e altri mitici produttori e scopritori di talenti. E tutti si aspettavano che tu gli portassi qualcosa di bello, completo.
loredana berte mia martini
Come nascevano i testi delle canzoni? Da una sofferenza, un ricordo, un amore non corrisposto?
I nostri testi non nascevano da qualcosa di strettamente autobiografico. Sarebbe stata un bacino poco ricco a cui attingere, la vita personale, visto che eravamo solo dei ventenni. Penso piuttosto che l’ispirazione, se così possiamo definirla, nasceva dall’ascolto di tanta musica e dalle infinite letture di libri di ogni genere, classici e popolari, divorati voracemente dalla più tenera infanzia in poi, per tutta la vita. Sono arrivata ai miei vent’anni con una carica tale di libri letti, che mi sembrava di aver vissuto mille vite, e scrivere era naturale. L’unica mia canzone autobiografica, almeno in parte, è “La nevicata del ’56”, perché nasce dal mio ricordo personale di bambina di 7 anni che vede la neve per la prima volta, in quell’inverno lontano.
Qual è stato il più grande cantante italiano del secondo dopoguerra?
Renato, Carla Vistarini, Paolo Zaccagnini, Dago
E’ una domanda che mi mette in difficoltà, non saprei rispondere e farei torto a troppi. Per cui dico che sono tutti i cantanti e le cantanti che mi hanno fatto l’onore di cantare mie canzoni e che qui ringrazio pubblicamente. Faccio un solo nome, per ricordare una delle più grandi voci della canzone italiana: Mario Musella, che oggi non c’è più, voce blues degli Showmen, mitico gruppo napoletano per cui scrissi “Mi sei entrata nel cuore”, prima mia canzone a entrare in classifica. Era il 1970.
Messa spalle al muro, chi butterebbe dalla torre: Celentano o Mina?
Pur di non rispondere, mi butto io.
Considera anche lei, come Giorgio Bocca, che Celentano sia stato un cretino di talento?
No. Penso che uno che ha fatto quella carriera straordinaria, che si è inventato stili e linguaggi nuovissimi, sia un genio.
Cicerone sosteneva che, ancor di più dell’amore, nulla è più importante, fecondo e piacevole dell’amicizia. In un mondo di narcisisti e arrivisti, è riuscita ad avere amici nel mondo della canzone e televisione italiane?
Pochissimi veri amici, miriadi di conoscenti. Per il mio lavoro sono rimasta sempre dietro le quinte, attenta a non apparire, a fare un passo indietro rispetto ad altri, e per questo la parte mondana e sociale della vita ne ha risentito. Ma essere schivi e riservati aiuta a salvarsi dall’effimero. E questo credo sia stata la mia salvezza, la mia fortuna.
carla vistarini
Da dove nasce questa sua attenzione morbosa per la sua riservatezza?
Rispondo con uno dei libri che da piccola mi colpì di più: “Incompreso”. Lì c’è un bambino che gli adulti non capiscono e che ogni cosa ferisce. Ecco, essere riservati è una difesa, una sorta di argine che permette di aggirare l’incomprensione, il distacco degli altri, che ancora oggi mi spaventa. E, poi, da ragazzina ho ricevuto un’educazione severa, dove il silenzio era d’oro, e si parlava solo se interpellati. I capricci, poi, non erano proprio contemplati.
Lei a chi e a cosa si ribellava?
gino castaldo dario salvatori carla vistarini
Mi ribellavo alla invisibilità che avevo avuto fino ai 14-15 anni, quando poi scoprii la musica e capii che c’ero anch’io. Esistevo. Scoprii che quell’invisibilità sociale non era solo mia, ma di tutti i ragazzini di quella generazione. Dovevamo conquistarci un posto al sole. E direi che ce l’abbiamo fatta.
Come apprese la morte di Mia Martini e che cosa le ha lasciato nel cuore?
L’appresi dalla televisione, ed è stato un colpo fortissimo. Era da tempo che non ci sentivamo, Mimì era andata vivere, se ricordo bene, in Umbria. La nostra amicizia è stata di poche parole e tante canzoni. Viaggi lontani, successi, ma non capitava mai che io e lei parlassimo di cose personali, riservate. Fra noi c’era una comprensione silenziosa. E pudore. La sua morte mi ha lasciato senza parole. Quando succede qualcosa di così tragico, senti che non hai intuito un dolore immenso, un disagio, una sofferenza e ti domandi cosa potevi fare e non hai fatto per tentare di evitarlo.
mina celentano
Negli anni Novanta, se non erro, ha lavorato anche con Luciano Pavarotti? Perché la produzione sentì il bisogno di affidarsi a degli autori?
Con Luciano è stata un’esperienza bellissima e molto divertente. Tutto iniziò perché il primo Pavarotti and friends, in termini di audience televisiva, non andò come sperato. La Rai, che aveva con Pavarotti un contratto per più edizioni, doveva incrementare gli ascolti soprattutto per non perdere i contratti pubblicitari. Fu così che Mario Maffucci, all’epoca capostruttura di Raiuno, mi chiamò dicendomi che avevano bisogno di un autore per rilanciare l’evento. Mi tuffai nell’avventura, lo rilanciammo, successo clamoroso seguito da circa sei o sette successive edizioni insieme.
Ho capito. Ma a cosa serve un autore in un concerto musicale con artisti di fama mondiale?
carla vistarini mita medici intervitate da gino castaldo
Un evento televisivo come il Pavarotti & Friends non è un semplice concerto musicale. Può sembrarlo, e allora vuol dire che abbiamo lavorato bene. In realtà si tratta di un vero e proprio spettacolo di arte varia, con una marea di contenuti, sia musicali che di altro genere, prosa, esibizioni varie, ecc., una folla di artisti e musicisti, un intrico indescrivibile di materiale elettrico, acustico, digitale e meccanico di dimensioni inimmaginabili. prove da fare e niente tempo a disposizione. Tutto questo corre il rischio di diventare un caos o un minestrone artistico e tecnico indifferenziato se qualcuno, un autore, non interviene a contestualizzare ogni cosa in un racconto fluido e ricco.
A cominciare da una scaletta perfetta che faccia alternare armonicamente i brani, agevolando nel contempo il lavoro dei tecnici, macchinisti, microfonisti, ecc. che adeguano la parte tecnica ad ogni esibizione. Poi c’è da scrivere il vero e proprio copione, con i testi per introdurre i cantanti e i vari interventi in palcoscenico che siano momenti attraenti per il pubblico e non una mera presentazione, e contemporaneamente spazio indispensabile di servizio per esigenze tecniche. Tutto è scritto e pensato perché possa far crescere, durante il concerto, l’attenzione del pubblico e quindi televisivamente parlando, l’audience. Va creata una sorta di suspense, di trepida attesa per l’ingresso delle varie star.
CARLA VISTARINI CON I SUOI TELEGATTI
Quali sono gli artisti o personaggi che l’hanno colpita di più?
La Principessa Diana per la sua riservatezza piena di grazia e mistero, e poi Eric Clapton, gentile e silenzioso.
Quali musicisti jazz hanno particolarmente inciso nella sua vita?
Bill Evans e Chet Baker su tutti.
La sua carriera, negli anni, ha virato, poi, anche in altri ambiti. Cosa la spinse a inoltrarsi, ad esempio, nel varietà televisivo italiano. Curiosità, voglia di cambiare, necessità economica?
L’inizio con la televisione è stato, come sempre, un’occasione che io ho colto al volo. All’epoca, prima metà degli anni Settanta, c’era un piccolo programma a episodi che s’intitolava 15 Minuti Con… Ogni episodio era una sorta di minimonografia di un gruppo musicale o di un cantante. I Pooh, che mi conoscevano, fecero il mio nome e così fui convocata da Giovanni Salvi, altra figura leggendaria della Rai, che mi spiegò che stavano cercando un autore, esperto di musica e discografia, che potesse scrivere dei testi di raccordo tra una canzone e l’altra, per un certo numero di cantanti. E così iniziai un viaggio dentro la Rai che poi è durato per oltre trent’anni e per innumerevoli programmi e varietà.
PIPPO FRANCO E L IMITAZIONE DI BETTINO CRAXI AI TEMPI DEL BAGAGLINO
Molti commentatori fanno risalire l’inizio del trash televisivo agli anni del Bagaglino, alle donne scosciate, alle torte in faccia. Cosa pensa di quel periodo che l’ha vista, comunque, partecipe in qualità di autore?
I commentatori commentano, gli altri fanno. Il Bagaglino è stato una compagnia di teatro-cabaret “all’antica italiana” fondata da Castellacci e Pingitore, di cui facevano parte, tra gli altri, attori del calibro di Oreste Lionello e Leo Gullotta. Io entrai come autore quando dal Salone Margherita si debuttò in tv su Raiuno con “Crème Caramel”. Ascolti stratosferici, da Festival di Sanremo o partite dell’Italia. Era il periodo di Tangentopoli e questo, probabilmente, ci ha permesso di fare satira a tutto spiano, spaziando dalle battutacce alle citazioni più colte, che forse non tutti avevano l’arguzia di cogliere.
Abbiamo fatto ridere e sorridere mezza Italia, facendo anche informazione, aggiustando in corsa, fino all’ultimo secondo prima della diretta, gli sketch e le battute di stretta attualità. E poi non ci dimentichiamo che Oreste Lionello, oltre a essere un finissimo attore, colto e ironico, era anche la voce e l’anima di Woody Allen per Italia, e Allen lo adorava, riconoscendogli gran parte del proprio successo. C’erano le ballerine, le soubrettes, le paillettes, ma su Raiuno – perché è sulla Rai che abbiamo iniziato – non abbiamo mai ricevuto censure per essere stati troppo trasgressivi. Amatissima Rai.
In che stato di salute è il nostro cinema italiano? Le piacerebbe ancora sceneggiare una storia?
Parto dalla seconda domanda. Mi piacerebbe moltissimo sceneggiare una storia, scrivere è il mio mestiere. Per quanto riguarda lo stato di salute, del grande schermo, l’impressione che ho del cinema italiano, in qualità di giurato (avendo vinto un Donatello faccio parte della giuria dei Premi David e vedo tutti i film che escono), è che siano sempre gli stessi attori e attrici ad entrare e uscire da un film all’altro, come una porta girevole. Ci saranno mille motivi validi.
Castellacci Pignitore Vistarini autori titoli Rai
Uno dei quali, penso, è che chi produce ormai non se la sente più di rischiare i propri soldi, come avveniva un tempo. Per fare un film oggi si spera nel Ministero. Gli aiuti sono dosati in base al progetto, premiando la partecipazione di nomi di grido. E poi c’è l’incognita distribuzione. I distributori italiani, se non hanno un pacchetto di nomi importanti, che garantiscano pubblico, è molto difficile che portino il film nelle sale. Ed è per questo che tanti film indipendenti, magari belli, restano nel cassetto.
Come ha conciliato, in questi decenni, la visibilità, la vetrina, la vanità, il luccichio del tubo catodico, con la sua proverbiale riservatezza?
Il luccichio a me piace, purché sia degli altri. Io trovo che ci voglia un grandissimo coraggio nell’apparire, nell’essere vistosi, colorati. Lo spettacolo è una favola, una magia. E io ammiro chi si traveste per gli altri, regalando spensieratezza e divertimento. C’è in questo donarsi un fattore umano, emotivo e psicologico, che va sempre rispettato e ricordato. Si fa l’errore, spesso, di guardare solo alla fama e al possibile narcisismo di chi si esibisce. Gli artisti sono acrobati che, per il pubblico, camminano su un filo sottilissimo, che forse è solo un’invenzione. Se lei pensa a Gigi Proietti, che è un animale da palcoscenico, non si può non provare altro che ammirazione.
carla vistarini foto di bacco
Si racconta, dietro le quinte, che Proietti tratti male le persone con cui lavora. E’ vero?
Con me, non è mai successo Né mai l’ho visto accadere.
Come mai la televisione è considerato il satana corruttore? Perché esercita un fascino così tanto profondo nella psiche dei televisivi?
Forse perché entra in tutte le case, come oggi internet. E poi perché davanti alla tivù si è passivi, si assorbe solamente, non si interagisce. Si può essere manipolati.
Perché la Rai è considerata il grande viperaio italiano?
Manco dalla Rai da tanti anni e non so cosa oggi vi avvenga. Sicuramente, quando vi lavoravo io, pur con tutte le storture del caso, legate alla politica e al cosiddetto manuale Cencelli, era un’altra Rai, più sacrale e interessata alla qualità del prodotto, degli artisti e della scrittura. Era molto più facile lavorare, come è capitato a me, senza, necessariamente, “conoscere” qualcuno.
Le è mai stata messa la museruola nella scrittura di un testo?
Io non l’ho mai avuta. Al massimo mi hanno chiesto di dare un certo indirizzo artistico al programma, ma censura vera e propria, mai.
Da autrice a scrittrice, il passo è stato breve, anche se più recente. Di quale libro va più fiera?
Il libro di cui vado più fiera è, in realtà, un romanzo, “Città Sporca”, che esiste solo in forma digitale, come ebook.
Perché, poi, solo in ebook?
eric clapton gibson l 5
Perché mi sono scontrata col misterioso mondo dell’editoria, a quel tempo a me ignoto. Era il 2013 e avevo terminato di scrivere “Città sporca”. Che fare? Non volevo infastidire amici o colleghi per farmi presentare qualcuno dell’ambiente. Gli amici non si scocciano, semmai si aiutano. Così ho scritto agli editori – tutti, dal grande al piccolo – presentando loro le mie credenziali artistiche. Un curriculum di tutto rispetto: premi, successi, classifiche. Nulla, nessuno mi ha mai risposto. Idem per gli agenti letterari. Allora, in forma anonima, e con lo pseudonimo di Slowhand (omaggio a Eric Clapton), partecipai a un torneo letterario organizzato da GeMS, il secondo gruppo editoriale italiano.
Dopo mesi di selezioni – eravamo partecipanti ma anche giudici – solo i primi dieci romanzi finalisti avevano diritto alla pubblicazione. E se al primo classificato era concesso l’onore della pubblicazione cartacea, con gli altri nove, invece, si procedeva alla pubblicazione di un ebook. E io ero fra i nove. Non può immaginare la gioia. Questa esperienza mi ha lasciato due insegnamenti: 1) che a nessuno interessa nulla di quello che sei, di quello che hai fatto nella carriera; 2) che c’è ancora spazio vitale per chi ha qualcosa di interessante da dire e raccontare. Bisogna mettersi in gioco ogni volta da capo. È stata un’esperienza dura, meritocratica, ma bellissima, che mi ha permesso poi di pubblicare altri libri.
Crede, anche lei, nel valore salvifico della scrittura?
pavarotti by ron howard
Credo più nel valore salvifico della musica. Ma anche la scrittura, negli anni, mi ha dato una grossa mano.
Quali sono, oltre ai suoi amatissimi gialli, gli scrittori che l’hanno segnata in modo particolare? I classici o, piuttosto, autori più contemporanei?
Tutti. Ne cito solo alcuni, l’elenco sarebbe infinito. Alla rinfusa: Borges, Chandler, Sciascia, Orwell, D.H. Lawrence, e i classici, Pirandello, Goethe.