Cristiana Mangani per “Il Messaggero”
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Da 27 anni Eva Mikula si sente vittima: vittima di discriminazioni, vittima di uno Stato che l'ha dimenticata e non le ha reso giustizia, ma soprattutto vittima di Fabio Savi, uno dei killer della banda, quello che era il suo uomo. Eppure per tutti è sempre la ragazzina venuta dall'Est, smaliziata, amante delle belle cose, complice nelle rapine, rimasta a fianco del killer, compiacendosene. In questi anni Mukula ha provato a contattare i familiari delle vittime, quei 24 innocenti uccisi a sangue freddo dai componenti della gang, composta perlopiù da poliziotti.
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«Ma sono stata scacciata come un cane randagio», si sfoga. Così, alla fine, davanti a richieste di attenzione che non hanno avuto risposta, oggi a più di quarant'anni, ha deciso di scrivere un libro, Vuoto a perdere, dove sulla copertina si immagina una sorta di Cappuccetto rosso in preda al lupo.
Signora Mikula, ma lei si vede veramente così?
«Ho subìto sette processi, dai quali sono stata sempre assolta per non aver commesso il fatto. Ho aiutato la giustizia nelle indagini, ed è grazie alle mie dichiarazioni se la banda è stata arrestata. Ma per gli inquirenti era difficile dire che una ragazzina dell'Est, clandestina, li aveva aiutati a catturare quelli della Uno bianca. La verità non è stata raccontata fino in fondo. E ogni giorno emergono nuovi elementi».
Lo Stato, però, non ha ritenuto di doverle dare una protezione, l'ha sempre considerata complice?
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«Sono stata sotto regime di protezione del ministero dell'Interno per quattro mesi, tempo di catturare i componenti della banda, poi niente più. Ho faticato tantissimo per andare avanti, ero totalmente sola, ma alla fine sono riuscita a costruire una vita normale e onesta».
Non sembra aver fatto completamente pace con quegli anni: non appena ha pubblicato il libro ne ha mandato una copia a Fabio Savi in carcere, perché?
«Quando è circolata la notizia che stavo scrivendo un'autobiografia lui ha inviato una lettera aperta a un quotidiano, nella quale mi diceva che si sarebbe rivolto ai magistrati se andavo avanti nel mio progetto, che dovevamo parlare e che non dovevo fare questa cosa. Voleva ancora una volta condizionare la mia vita, come ha fatto in quegli anni. E quindi gli ho inviato quello che avevo scritto. È stato un modo per dirgli che non mi faceva più paura».
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L'ha denunciata per calunnia e diffamazione.
«Dice che non sono vere le botte, le violenze, le minacce subìte durante la nostra relazione. A lui parlare e raccontare la vita privata in pubblico crea disturbo e rabbia più dei 24 omicidi commessi. Avevo 16 anni quando l'ho conosciuto, lui ne aveva 32, non avevo famiglia, ero una clandestina venuta dall'Est: cosa volete che capisca una ragazzina di omicidi, di bande? Lui per me faceva il camionista, dopo un anno e mezzo ho scoperto che era un assassino».
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E perché non è fuggita?
«Avevo paura. Dove potevo nascondermi senza aiuti né amici?».
Durante i processi è emerso che aveva molta dimestichezza con le armi, che le conosceva bene, dove ha imparato?
«Savi era un appassionato di armi, le sue erano tutte regolarmente dichiarate. Gliele ho viste maneggiare di continuo: all'età che avevo si è come una spugna, si assorbe tutto. Ho imparato a conoscerle senza volere, vivendoci insieme».
Le accuse nei suoi confronti sono state anche quelle di avere investito del denaro della banda in Ungheria.
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«Sono state fatte le indagini e sono stata assolta da tutti i reati».
In che modo è stata l'artefice della cattura dei fratelli Savi?
«Gli investigatori sono arrivati sulle tracce della banda per una informativa Interpol attraverso una segnalazione che era partita dall'Ungheria. Sono stata io ad allertare un mio amico giornalista ungherese. Gli ho telefonato per chiedergli aiuto, gli ho detto che i Savi facevano scomparire delle ragazze che non volevano prostituirsi e che avrebbero fatto la stessa cosa con me. Era il modo per avvertirlo che c'erano delle persone morte. Ha capito che ero in pericolo».
Ha avuto un ruolo nella banda?
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«Io sono stata psicologicamente assoggettata e condizionata da Fabio Savi, così come sta tentando di fare ancora oggi con le sue lettere e le sue denunce».
Era molto giovane non sarà rimasta affascinata da quel tipo di vita, dai soldi che circolavano?
«Quando ho capito quello che stava succedendo era troppo tardi. Era gelosissimo, violento, per lui ero una mina vagante, sapevo troppe cose, non mi avrebbe mai lasciata andare, mi avrebbe cercata ovunque. Ho pensato che l'unica soluzione fosse rimanere neutra ai suoi occhi».
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Durante i processi il principale accusatore nei suoi confronti è stato proprio lui: ha raccontato che era stata complice nelle rapine e negli omicidi.
«Forse perché l'ho fatto arrestare, lo avevo tradito».
Cosa era la Uno bianca, perché uccidevano così?
«Io credo che tutto abbia avuto origine da una serie di profonde ingiustizie che hanno subìto i fratelli Savi, alle quali le istituzioni non hanno dato risposte. Da qui sono nati la voglia di farsi giustizia da soli, il senso di onnipotenza e il disprezzo per la vita umana».
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Se tutte le persone insoddisfatte si facessero giustizia da sole, sarebbe una strage continua. Che vita è stata quella di Eva Mikula dopo gli arresti nel 94?
«Sono stati tanti i pregiudizi nei miei confronti. Non è stato facile risollevarmi».
E oggi?
«Oggi ho una bellissima famiglia, dei figli, lavoro nel settore immobiliare, mi sono perfettamente integrata nella società italiana, ho tante amicizie. E poi mi sto dedicando a una cosa alla quale tengo molto: faccio volontariato in un'associazione che contrasta la violenza sulle donne. Porto la mia esperienza, di una persona che è riuscita a uscire dall'inferno».
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