Matteo Persivale per il "Corriere della Sera"
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Se i 240 milioni di follower di Justin Bieber fossero una nazione sarebbero la quinta più popolosa del mondo dopo Cina, India, Stati Uniti e Indonesia. Così quando Bieber, che è il capo di Stato di questa gigantesca entità transnazionale, si è ammalato, ha scelto la trasparenza totale: una «story» su Instagram.
«Ho questo virus che attacca il nervo del mio orecchio e i miei nervi facciali, e ha causato la paralisi del mio viso - dice Bieber, 28 anni, nell'impressionante video, con metà volto bloccato, un occhio che si chiude e si apre fuori controllo -. Come potete vedere, dalla parte di quest' occhio non riesco a muovere la palpebra. Non riesco a sorridere da questo lato della mia faccia. Questa narice resta ferma.
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Devo cancellare le date del mio tour: come è ovvio, non sono fisicamente in grado».
Si tratta della sindrome di Ramsay Hunt, ha spiegato il cantante (viene causata dal virus Herpes Zoster responsabile della varicella che resta «dormiente» per anni e può, più avanti nel tempo, riattivarsi e scatenare questi sintomi).
A chi pare strano che un artista musicale amatissimo dal suo pubblico (150 milioni di dischi venduti) scelga un modo al 100% senza filtri di annunciare una malattia seria bisogna ricordare che le regole della comunicazione - per tutti: aziende, cantanti, sportivi, politici - sono cambiate radicalmente nell'ultimo decennio con l'avvento dei social media, e che specialmente un personaggio uscito come lui da YouTube non poteva, non può, gestire la comunicazione come facevano i suoi colleghi del secolo scorso.
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Bieber aggira costosissime agenzie di pubbliche relazioni, evita consulenti d'immagine, prende in mano il telefono e racconta sé stesso - in questo caso la sua malattia - da protagonista assoluto del reality show della sua carriera, aggirando i media tradizionali.
È abituato a fare da solo: canadese, di umili origini, da bambino cantava in strada a Stratford, Ontario, ventimila abitanti, e suonava la chitarra (c'è una foto famosa del piccolo «busker» con la magliettina gialla e un cappello blu da baseball troppo grande).
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Cantava e ballava sempre: nella sua cameretta, nel tinello di casa. Pattie Mallette, mamma single - ebbe Justin diciottenne, dopo un'adolescenza di abusi e problemi di dipendenze - filmava tutto e caricava su YouTube. Pochi mesi dopo Scooter Braun, manager di talenti come Ariana Grande e Demi Lovato, lo portò con sé in America, gli fece incidere «One Time», il suo primo successo, e da lì è cominciata una delle carriere più rapide della storia della musica leggera.
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I critici di una volta si domandavano se il successo avrebbe retto il passaggio attraverso la pubertà e il cambiamento/abbassamento della voce, non capendo che quello delle ottave e dell'estensione vocale è un parametro vecchio. Bieber avrebbe aggirato anche quell'ostacolo, continuando la carriera con una voce diversa da quella che l'aveva reso famoso, e sempre raccontando sé stesso in diretta, i problemi di dipendenze superati con l'aiuto della fede e della moglie Hailey (modella e nipote di Alec Baldwin), come ha spiegato l'anno scorso con la solita franchezza a GQ americano: «Avevo la sensazione di desiderare sempre di più, senza freni, perché pur avendo ottenuto tutto questo successo mi sentivo comunque triste e stavo ancora male.
E ho ancora di questi problemi irrisolti. Pensavo che il successo avrebbe cambiato tutto in meglio e per me la droga era un tranquillante, un modo per continuare a farcela... quanto vale tutto il successo del mondo se poi alla fine ti senti sempre vuoto dentro?». C'è un verso della Bibbia che cita spesso: «La verità vi farà liberi», Giovanni, 8:32.
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