Stefano Cappellini per repubblica.it - Estratti
berlinguer la grande ambizione
Enrico Berlinguer che fa ginnastica. Così inizia Berlinguer, la grande ambizione, il film di Andrea Segre che ha aperto la Festa del Cinema di Roma. È quasi una promessa allo spettatore: entra in questa storia e farai due ore di palestra politica con il miglior personal trainer, scusate le parolacce, e alla fine l’emozione sarà pari al guadagno intellettuale.
Il grande merito di questo film sul leader politico più amato dal popolo nella storia repubblicana, al di là della strepitosa prova d’attore di Elio Germano, una roba alla Volonté e non serve dire altro, è la ricostruzione di come si fa – come si dovrebbe fare – la politica. Servizio, missione, ascolto. Visione ma pragmatismo, ideologia senza ideologismi, empatia ma mai accondiscendenza. La strada si indica, non si segue annusando gli umori tra i cespugli. Poveri noi posteri, dunque.
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Ogni volta Berlinguer paziente spiega: il compromesso serve a fare le riforme di cui c’è bisogno, appunto, serve a puntellare una democrazia assaltata da forze oscure e bombarole, serve a far avanzare il socialismo nella democrazia. Socialdemocrazia, si chiama in una parola e, se con il senno di poi un torto si può addebitare a Berlinguer, è quello di non averla imbracciata prima del crollo del muro di Berlino. Lui che aveva bene chiaro che idea della democrazia avessero i sovietici. «Non voglio uscire dalla Nato», dice in una tribuna politica. Lui che a Sofia nel 1973 non viene ucciso in un incidente d’auto solo per imperizia degli attentatori bulgari.
Ma Berlinguer credeva sinceramente in un altro comunismo e nella sua testa non c’era contraddizione, vedi il socialismo spiegato alle figlie Bianca e Maria mentre palleggia, anche se di fatto c’era, eccome. Infatti Berlinguer torna a casa da Sofia incerottato e all’amata moglie Letizia spiega che dell’attentato non si deve sapere nulla perché il partito non capirebbe, ed effettivamente l’episodio è rimasto segreto per decenni, confidato solo a pochissimi amici.
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Dopo lo strappo con Breznev un dirigente del partito dice: «Un compagno mi ha chiesto: ma noi siamo amici o nemici della Russia? E io ho detto che siamo amici che cercano di cambiarla». Suggestione che risuona ancora in molti ex comunisti quando si parla di guerra in Ucraina.
In quell’ansia di non spaccare mai il Paese, che Berlinguer indica come obiettivo a tutti gli interlocutori, c’è una grammatica. Cucire, cucire, cucire. La difesa delle proprie posizioni non è mai scontro tribale. L’arroccamento è vietato, la domanda è sempre: cosa possiamo ottenere di concreto? Pazienza, ci vuole. I
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l dialogo con Aldo Moro è scandito dal reciproco elogio della virtù cardinale. Coerenza, anche. Quando Moro viene rapito dalle Brigate rosse e il Pci sceglie la linea della fermezza, non si tratta con i terroristi, Berlinguer raduna la famiglia e dice: se capitasse a me, voglio che accada lo stesso. Berlinguer tra la gente. Le visite in borgata non sono turismo politico, c’è osmosi tra il capo e la folla. Nelle chiacchierate in famiglia – la storia è un continuo alternarsi di scene pubbliche e private – si racconta la sua formazione per strada, il piacere del contatto con la gente e della contaminazione. «Ho imparato a giocare a poker in osterie con gente poco raccomandabile», racconta il leader.
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Bella la scelta di chiudere il racconto con Berlinguer che scrive una lettera alla moglie nel giorno dell’anniversario di nozze per scusarsi delle assenze in famiglia, ma anche per ribadire che non poteva essere altrimenti. La politica non è un hobby o una parentesi, come avrebbero teorizzato anni dopo alcuni fan improvvisati. Il film di Segre rende giustizia a un leader che tutti, ex comunisti e no, ricordano con stima e affetto, che ancora oggi molti giovani e giovanissimi scoprono con piacere, e che non meritava di essere trasformato, proprio lui, il meno indicato in assoluto, in involontario testimonial dell’antipolitica.
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