don giuliano costalunga e il marito
Monica Coviello per https://www.vanityfair.it
Giuliano, don Giuliano Costalunga, 48 anni, aveva conosciuto Paolo nel 2008. Gli avevano diagnosticato un cancro, ed era al San Raffaele di Milano per un controllo. Anche Paolo era in ospedale. Si sono scambiati qualche parola, hanno preso un caffè insieme, e alla fine uno ha lasciato il numero di cellulare all’altro, come succede quando nasce un’amicizia. Allora nessuno dei due avrebbe immaginato che quell’incontro sarebbe stato l’inizio di una storia d’amore intensa e appassionata.
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E anche sofferta, perché don Giuliano, che era parroco a Selva di Progno e Giazza, in provincia di Verona, ha dovuto rinunciare al ministero presbiterale, e quindi alla conduzione delle sue parrocchie. La sua storia è stata trattata come una specie di «scandalo». Don Giuliano, però, non ci sta. Perché la sua è stata una scelta responsabile d’amore, e il suo rapporto con Paolo, che intanto, il 28 aprile, è diventato suo marito con una cerimonia in Gran Canaria, dove oggi vivono, è «pulito, bello e intenso».
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Come è iniziata la sua relazione con Paolo?
«Dopo quel primo incontro in ospedale, la nostra è diventata un’amicizia più intensa: gli ho raccontato chi ero e che cosa facevo, come vivevo il mio rapporto con Dio, la mia condizione di uomo e di prete. Lui mi ha spiegato di sentirsi sereno nel suo essere omosessuale. Le nostre famiglie si sono conosciute: lui è venuto a Verona con i suoi genitori, e i miei sono scesi a Napoli per una vacanza. Si sono voluti bene da subito. Lui, con me, ha riscoperto il suo amore per Dio, si è riavvicinato alla vita della chiesa e ai sacramenti, e ha cominciato a collaborare alla vita della parrocchia».
Lei sentiva che stava nascendo qualcosa?
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«Mi sono reso conto che dentro di me si stava risvegliando quello che avevo sublimato con l’amore per Dio: la mia omosessualità. Ne ho acquistato consapevolezza in lungo percorso di comprensione personale e accettazione, e mi sono trovato a mettere in discussione una serie di situazioni. Mi sono aperto con il mio padre spirituale, che conosceva le mie vicende personali e le sofferenze interiori, e nel 2015 sono arrivato alla consapevolezza che omosessualità fosse una connotazione tipica della mia persona, non più sopprimibile, e ho lasciato la conduzione delle parrocchie».
È stato difficile accettare questo lato di sé?
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«Quando mi sono reso conto che Paolo mi mancava, quando non c’era, o che mi batteva il cuore quando lo vedevo, ne sono stato terrorizzato. Poi questo sentimento è diventata linfa vitale. All’inizio ho cercato di limitarmi all’amicizia, poi l’amore si è affermato con tale forza che ho dovuto cedere e l’ho fatto con naturalezza».
Ne ha parlato subito con Paolo?
«Quando gli ho parlato dei miei sentimenti, lui mi ha risposto che aveva iniziato ad amarmi da subito. Ma è sempre stato rispettoso delle mie scelte e dei miei tempi, non ha mai forzato la mano: ha sempre accettato un’amicizia platonica, anche se gli ha causato qualche sofferenza interiore. Il suo rispetto e la sua sensibilità mi hanno fatto stare bene, e mi hanno permesso di accettare ancora meglio la mia omosessualità».
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È allora che ha deciso di lasciare la conduzione della parrocchia?
«Sì: era il 2015. Non volevo vivere il mio amore in canonica, da parroco: ho fatto un grande respiro, ho preso coraggio e l’8 febbraio ho chiesto al vescovo di interrompere il ministero presbiterale, e me ne sono andato in quella che è poi diventata casa mia. Purtroppo, però, è cominciata una storia di incomprensione con la Curia. La chiesa definisce scandalo quello che per me è stato il trionfo dell’amore».
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Non è più prete?
«Per via del decreto di sospensione, non posso più celebrare pubblicamente, ma non accetto che mi si dica che non posso più essere prete nel mio privato. Il sacramento dell’Ordine rimane per sempre, proprio come il Battesimo o la Cresima. Io continuo a celebrare la messa con Paolo, nel silenzio della mia casa: la mia condizione di prete è permanente, il sacramento è indelebile, anche se cambia la modalità di servizio. Non pretendo di celebrare nelle piazze, ma non permetto che qualcuno mi dica che non posso farlo nel mio intimo».
Come è oggi il suo rapporto con Dio?
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«Ne sono ancora profondamente innamorato, e questo amore lo condivido con mio marito: noi preghiamo insieme, ci definiamo profondamente credenti. Andiamo anche a messa nella parrocchia in Gran Canaria. Nella chiesa ci sono preti che si fanno moralizzatori e accusatori e altri che accolgono con rispetto e permettono la partecipazione alla vita della comunità: noi ne abbiamo trovato uno cordiale e aperto, e facciamo la Comunione: l’incontro con l’eucaristia non va riservato ai puri, ma a chi ne ha bisogno. Io sento il bisogno estremo di ricevere l’eucaristia con mio marito, per noi è la completezza dell’amore umano».
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Vi è pesato non potervi sposare in chiesa?
«Sì, ma sapevamo che era impossibile. Ma noi siamo andati in Spagna con la consapevolezza di volere un matrimonio, e non solo un’unione civile. Abbiamo la cerimonia con il segno della croce, è stata letta la parola Dio, sono stati fatti canti religiosi. Anche se non abbiamo avuto l’avvallo dell’autorità religiosa, c’è stata la presenza di Dio, c’era anche lui».
Come l’hanno presa i suoi amici e i suoi parenti?
«Benissimo, e anche questo è stato un dono del Signore. La famiglia di Paolo ha sempre saputo della sua omosessualità, la mia no, perché il mio percorso era stato un altro. Fino a un paio di anni fa non ho detto niente, ma quando l’ho fatto sono stato accolto con amore e rispetto. Paolo ed io ci consideriamo due uomini privilegiati: al nostro matrimonio c’erano tutti i nostri genitori, i fratelli, le sorelle, i nipoti e i pronipoti, oltre ad alcuni miei ex parrocchiani che hanno saputo capire. Due di loro ci hanno fatto da testimoni».
Ha dovuto cambiare lavoro.
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«Sì. Stiamo prendendo la certificazione europea per lingua spagnola, che prevede tre anni di studio. Nel frattempo lavoriamo dove capita. Facciamo i camerieri, un lavoro che ci permette di vivere con dignità. Poi faremo l’abilitazione delle lauree. Io sono laureato in teologia, Paolo in studi comparatistici giapponese e inglese: abbiamo intenzione di approdare all’insegnamento».
Sono tanti i preti che reprimono l’attrazione verso un’altra persona o la vivono di nascosto?
«Parlo per diretta esperienza: ho incontrato più di un prete che vive una doppia vita e si ritrova a non avere il coraggio di prendere una decisione. Lo comprendo, perché non è così semplice. Io mi considero fortunato: ho un carattere positivo e forte, che mi ha permesso di affrontare questo mare tempestoso del cambiamento, ma molti non riescono, e ho estremo rispetto per loro.
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La chiesa si dovrebbe rendere conto che questi silenzi non fanno bene alle persone: fanno vivere vite infelici e rappresentano una mancanza di rispetto anche nei confronti della chiesa stessa. Spesso, in questi casi, il vescovo e la curia sanno, ma finché non si crea lo “scandalo”, tacciono».
Che cosa dovrebbe fare la chiesa?
«Credo che la chiesa debba fare una seria riconsiderazione del celibato: non si può imporre a uomini e donne che entrano nella vita religiosa di spegnere la loro sessualità: Dio ci ha creati sessuati, è parte del suo progetto. Anche perché il rischio è quello di creare situazioni di frustrazione che possono trasformarsi in devianze pesanti, come la pedofilia, o in episodi come le orge in canonica. Sarebbe bello che la chiesa permettesse ai religiosi di vivere una sessualità ordinata all’interno della chiesa perché non è qualcosa di contrario all’amore per Dio».
don Giuliano Costalunga
E l’omosessualità?
«Il mio sogno è che la chiesa inizi a prendere in considerazione seriamente la bellezza dell’amore nella sua completezza: Gesù non ha mai parlato di amore etero o omosessuale. Purtroppo c’è un’idea stereotipata dei gay che frequentano persone diverse, che praticano sesso promiscuo. Io invece auguro a tutti di vivere un amore leale, esclusivo, onesto e pulito come quello che condivido con mio marito».