Estratto dell’articolo di Arianna Finos per "la Repubblica"
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Era destinato a poche righe in cronaca: abusi familiari, violenza, omicidio, carcere. La spirale dell’autodistruzione. Ma nel momento più buio Luigi Celeste, il giovane naziskin che nel 2008 venne condannato a dodici anni e quattro mesi per aver ucciso il padre che pestava e minacciava di morte la madre e il fratello, a Milano, ha scritto la sua vita in un libro: Non sarà sempre così . Quelle parole sono diventate rinascita. Oggi Celeste lavora come consulente informatico a Strasburgo, la sua storia è diventata un film potente, Familia, di Francesco Costabile, oggi in sala.
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Ha accompagnato il film alla mostra di Venezia. Com’è stato?
«Ho vissuto quel momento con ansia, credo sia stato il giorno più importante della mia vita. Indubbiamente questo film chiude un ciclo della mia esistenza passata, anche se ho già cominciato da anni a viverne una nuova».
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Cosa le ha dato nel momento più difficile, in carcere, la spinta per scrivere il libro?
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«Avrei preferito che questo film non nascesse. Avrei voluto una vita molto più serena. Questo film è venuto fuori dall’ascolto della sentenza di primo grado. Ho subito una grossa ingiustizia, una condanna a dodici anni e quattro mesi, quando il pubblico ministero, che aveva compreso la situazione, ne aveva chiesti dieci, con gli arresti domiciliari. Quel giudice mi ha colpevolizzato, anziché riconoscere che ho salvato mia madre e mio fratello dalla violenza di mio padre».
Sua madre avrebbe potuto essere un altro numero nella statistica dei femminicidi.
«Sì, quello era il finale che sembrava scritto. Il giudice di primo grado ha banalizzato ciò che era accaduto come una semplice lite familiare, senza considerare le denunce e le testimonianze che descrivevano chi era mio padre. Per lui sarei dovuto uscire di casa, quella sera. Se lo avessi fatto, tornando avrei trovato mamma e mio fratello non più in vita. Perché mio padre ci aveva minacciato con un coltello, pronto ad aggredire.
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Speravo in un po’ di comprensione, una pena mite, la possibilità di tornare a casa. Sono rimasto in carcere, è nata lì la determinazione a trovare un riscatto, dimostrare ai magistrati che avevano sbagliato il giudizio nei miei confronti».
Non ha provato rimorsi per quel che è successo.
«Nessuno, per come è andata quella sera. […]».
Come hanno reagito al film?
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«Ne sono felici. Mi sono sempre stati vicini, in mezzo a tutto questo siamo passati e usciti insieme. Anche se io ho guidato la vettura, loro erano a bordo con me».
Lei all’epoca faceva parte di un gruppo neonazista, da cui poi si è distaccato.
«[…] Non si arriva lì per caso, perché lo scegli, perché sei determinato a sposare ideali d’odio. A sedici anni ero appena uscito da tre anni e mezzo di comunità, mi ci avevano messo per i maltrattamenti di mio padre in famiglia. Mio padre entrava e usciva dal carcere, aveva la quinta elementare, mia mamma era altrettanto poco istruita: non mi hanno cresciuto leggendo il Mein Kampf prima di andare a dormire.
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Gli ambienti dell’estrema destra dall’esterno sembrano impenetrabili, oscuri. Ma dentro ci sono tante storie di dolore, che ho conosciuto […] Ognuno ha le sue motivazioni. Io dovevo sfogare una grande rabbia e ho trovato molta compatibilità con quelle idee di odio. Ne sono uscito nel momento in cui la rabbia è finita. Non parlo più con nessuno del gruppo da oltre dieci anni, auguro loro di trovare il proprio percorso al di fuori di quegli ambienti».
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