Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera”
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«Per preparami ho rivisto tantissimi film, come Intolerance di Griffith, Quarto potere di Orson Welles, Nashville di Altman, ma anche Il padrino e Apocalypse now di Coppola e i vostri Il gattopardo di Visconti e La dolce vita di Fellini. Questi ultimi soprattutto per la capacità di partire da una storia per raccontare un mondo intero.
Per dire, le scene delle feste: il cinema italiano ci ha insegnato a raccontarle, non sono solo party ma spaccati sociali, ci dicono il modo in cui una società sta cambiando». Ha lavorato per oltre quindici anni il premio Oscar Damien Chazelle al suo quinto film, Babylon, e ora che sta per affidarlo al pubblico (in Usa esce il 23 dicembre, da noi il 19 gennaio), mescola trepidazione a un pizzico di incredulità per aver portato in porto l'impresa.
Un omaggio alla Hollywood dei pionieri, negli anni Venti del secolo scorso, quasi il rovescio della medaglia di La la land . In entrambi i casi si comincia con un ballo sfrenato. Ma là c'era la promessa di «another day of sun». Qui la realtà mostra subito le sue crepe, è la decostruzione del mito. Finora, dice il regista al Corriere , poco raccontata.
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«La cosa che mi ha spinto a iniziare questo viaggio già nel 2009, ai tempi del mio primo film, Guy and Madeline on a Park Bench, è stato realizzare che, al di là del mito di Hollywood di cui tutti ci nutriamo, anche io sapessi così poco di quel gruppo di pionieri.
C'era il potenziale per andare al di là del glamour, per indagare quanto ci fosse di trasgressivo, pericoloso, folle, spericolato e selvaggio. Hanno costruito dal nulla un'industria che si è nutrita di uno strano connubio di creatività, sesso, droga, musica, qualcosa di unico».
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Che, dice, ha lasciato vittime sul campo. «Mi sono sempre interessato al costo umano delle cose, si dimenticano spesso i danni collaterali e si guarda solo il risultato. In questo caso il passaggio dal cinema muto al sonoro, come se fosse stato un passaggio senza sforzi. Invece il costo fu brutale e si lasciò alle spalle tante persone».
Come alcuni dei suoi protagonisti. È un racconto corale Babylon : c'è il ragazzo messicano di belle speranze e splendido aspetto, Manny Torres (Diego Calva), la temutissima cronista mondana Elinor St. John (Jean Smart), il virtuoso della tromba, Sidney Palmer (Jovan Adepo), musicista nero ammesso in virtù del suo talento in un mondo guidato dai bianchi, il malavitoso James McKay (Tobey Maguire, anche produttore), appassionato di cinema nonché psicopatico e depravato. C'è anche il piccolo faccendiere Bob Levine, affidato a Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers.
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Soprattutto, ci sono i due protagonisti. Nelly LaRoy, una Margot Robbie, splendida wannabe , con una madre alla Bellissima alle spalle e una carica umana fuori dal comune. E Jack Conrad, il divo più pagato della Hollywood del muto, a cui basta schioccare le dita per avere tutto. Fino all'avvento del sonoro che rischia di spingerlo sul viale del tramonto.
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«Sono il regista più fortunato del mondo - ammette Chazelle - , con un cast così pazzesco: non posso citarli tutti ma ognuno ha dato il meglio. Brad e Margot sono stati molto coraggiosi, non sono personaggi facili».
Gli servivano due star, spiega, per interpretare due star. «Come un meta racconto. Non dico che abbiano interpretato loro stessi dando vita a Nelly e Jack, ma ci hanno messo del loro per renderli credibili, far percepire, sotto la patina del mito, la fragilità e la tenerezza delle persone reali». Per entrambi un invito a nozze, che li mette in prima fila nei radar della corsa verso gli Oscar. Anche Pitt si è preparato molto.
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«Ho studiato le star del muto, come Douglas Fairbanks e Rodolfo Valentino. C'era fascino nelle loro performance, non potevano usare i dialoghi, era diverso». La cura dei dettagli per ricreare la Hollywood di cento anni fa è al limite dell'ossessione. Chazelle ha girato in 35 mm, utilizzato gli studi costruiti da Charlie Chaplin. Per la colonna sonora, il complice di sempre, Justin Hurwitz, il suo marchio di fabbrica fin da Whiplash e La la land . Ora tocca al pubblico. Quello della sala, per Chazelle non ci sono dubbi. «È la nostra battaglia».
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