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    IL CINEMA DEI GIUSTI - “HUNGER GAMES 3” È STATO BOLLATO COME “TROPPO CUPO E NOIOSO”, UN SEMPLICE PROLOGO DEL GRAN FINALE. MA L’ANALISI DELLA PROPAGANDA FATTA CON VIDEO VIRALI HA ANTICIPATO I FILMATI DI ISIS


     
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    Marco Giusti per Dagospia

     

    Hunger Games – Il canto della rivolta – Parte Uno di Francis Lawrence

     

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    Su due ore e cinque minuti di film, quasi un terzo se ne va per inquadrare in primissimo piano il faccione e le grandi labbra rosse di Katniss Everdeen alias la Ghiandaia Imitatrice alias Jennifer Lawrence. Il suo pubblico, quasi tutto femminile, è cresciuto con lei e vuole soprattutto vederla. Il suo problema, cioè il problema che ha Jennifer Lawrence con il personaggio di Katniss e l’intera saga, è che sta diventando grande. E da tempo non dimostra più i 17 anni e la giovinezza che aveva la sua Katniss nel primo film.

     

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    Il primissimo piano e tutto un lavoro di makeup pesante sul suo volto, dovrebbe mascherare un po’ la sua crescita, il suo status di star internazionale. Del resto la parte uno e la parte due di questo “Hunger Games: Il canto della rivolta” diretto da Francis Lawrence, già regista del secondo episodio della saga, scritto da un giovane duo di brillanti sceneggiatori come Peter Craig (The Town) e Danny Strong (The Butler), sono state girate assieme proprio per assicurare al pubblico una Katniss ancora giovanissima nel 2015.

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    Grazie a questo non saremo privati nella seconda parte della presenza incantevole di Philip Seymour Hoffman, scomparso poco dopo le riprese del film, che alla sua “cara memoria” è dedicato. Ora, questo Canto della rivolta – parte uno, privato della sua seconda e conclusiva parte, che dovrebbe chiudere l’intera saga, che ha già incassato in America 123 milioni di dollari e in tutto il mondo 275, e da noi 4 milioni e passa di euro, è giudicabile solo parzialmente.

     

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    I critici internazionali non ci sono andati leggeri. “Cupo e spesso noioso”, “E’ la prima parte del nulla”, “Non preoccupatevi degli spoiler perché non c’è nulla da spoilerare”, “Se volevamo saper qualcosa della propaganda, avremmo visto un documentario su Leni Riefensthal”, e via sfottendo. Ora, è vero che queste due ore e cinque minuti sono costruite soprattutto sull’attesa del finalone che vedremo a Natale 2015, è vero che, a differenza dei due precedenti Hunger Games, mancano proprio i Games infernali, e tutti i personaggi legati ai giochi fanno qui poco più che dei cammei, ma è vero pure che il film si deve reinventare totalmente e non ha più il format originale.

     

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    Ha bisogno cioè di nuovi personaggi e di una nuova situazione. Lo fa con un po’ di fatica, ma anche con intelligenza, puntando tutto sulla costruzione dei video virali e delle tecniche di propaganda che si lanciano i due schieramenti opposti. I rivoluzionari che fanno base nel Distretto 13, con a capo il presidente Alma Coin, cioè Julianne Moore, coadiuvata dal genio dell’informatica Beetie Latier, cioè Jeffrey Wright, e dalla mente politica di Plutarch Heavensbee, cioè Philip Seymour Hoffman, e i cattivi al potere con a capo il Presidente Snow di Donald Sutherland (doppiato benissimo da Massimo Foschi).

     

     Se Katniss è la protagonista dei video rivoluzionari confezionati per i guerriglieri dalla bella Cressida, una strepitosa Natalie Dormer nel ruolo di una regista con mezza capa bionda rasata, lo stesso presidente Snow, il suo Pippo Baudo Stanley Tucci e il biondino Peeta, cioè Josh Hutcherson, amore di Katniss, rispondono con una serie di talk show tra “Ballarò” e “Piazza Pulita” mostrando quanto desiderino la pace i padroni della terra. La lotta, in pratica, è tra i video virali costruiti come verità svelata alla “Report” da Cressida con Katniss protagonista e il talk show generalista del Presidente Snow.

     

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    Con tutto quel che ne consegue. Ma l’aspetto più interessante è che, forse senza volerlo, Il canto della rivolta mette in scena la costruzione dei video di propaganda, tra orrore e sforzo mediatico, che ci stanno arrivando in questi ultimi mesi dalla Siria e da tutto il Medio Oriente. Sia quelli con le decapitazioni dell’Isis, sia quelli delle eroine curde di Kobane, costruite un po’ sul modello di Katniss, cioè Giovanne D’Arco armate e sorridente in lotta contro il male. Altra cosa interessante è che proprio la stessa strategia mediatica del film è stata giocata con l’arrivo su You Tube dei video virali del film costruiti proprio nella stessa maniera.

     

    Insomma, se Katniss è in attesa della resa dei conti per due ore e cinque minuti, e cerca di salvare il suo amore per Peeta, che è il suo avversario diretto in video, ma cerca anche di salvare quel che resta della sua famiglia, recupera anche un grosso gatto rosso simpatico per la sorellina stupidella, tutto il film è concentrato su qualcosa di diverso. Cioè sulla strategia mediatica che lega le due parti in gioco, e coinvolge la stessa strategia di lancio del film, e ciò che stiamo vedendo davvero dai luoghi di guerra e di orrore del mondo.

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    Quanto veri? Quanto falsi? Quanto costruiti? Se il film manca, in parte, di sostanza nella storia, è davvero molto sviluppato come ragionamento sulla strategia mediatica di un mondo dove i buoni come i cattivi si modellano quasi seguendo la forza propagandistica del cinema, della tv e soprattutto della rete. Al punto che il controllo della rete è più forte, anche nel film, del controllo del territorio.

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    E il controllo dell’immagine, per tutte il faccione di Katniss e la sua canzoncina, “The Hanging Tree”, che mi ricorda un vecchio e bel film di Delmer Daves, serve alla cattura totale di un pubblico giovanile più della storia d’amore della protagonista, assolutamente sospesa. Non sottovalutiamo Hunger Games. Già in sala.

     

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