Valentina Conte per “la Repubblica”
«Basta con la politica. Torno per un po’ negli Stati Uniti a fare ricerca. Forse scriverò un saggio sulla spesa pubblica in Italia e come mai non si riesce a tagliare. Ma senza intenti polemici. Non voglio che suoni come una critica implicita al governo Renzi. Sì, è vero: me ne sono andato. Ma amichevolmente. Non ho sbattuto la porta, ecco».
roberto_perotti
Roberto Perotti, classe 1961, il bocconiano diventato poi professore nella sua università milanese dopo un prestigioso dottorato al Mit di Boston (relatori Dornbusch e Blanchard) e un post-dottorato a Harvard, Tel Aviv, Columbia University, è amareggiato.
L’avventura come commissario alla spending review è finita, per suo stesso desiderio.
«Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha confessato in tv lunedì sera. Da tempo il disagio montava. Fino a deflagrare alla vigilia della Finanziaria. Quella notte tra il 14 e il 15 ottobre abili manine trasformano i tagli selettivi, mirati, puntuali alla spesa pubblica, in una classica sforbiciata lineare. Da 10 miliardi si piomba a 5,8 miliardi, quasi la metà. E quasi tutti col criterio del 3%, alla Tremonti insomma. Poi ne spuntano altri 3,1 di miliardi, definiti come «ulteriori efficientamenti » nell’imbarazzato comunicato di Palazzo Chigi. Una posta messa lì per essere riempita poi.
ROBERTO PEROTTI
Dilettantismo? Pressappochismo? Improvvisazione? Disorganizzazione? «Si sono fatti un sacco di pasticci», taglia corto il professore. E si intuisce sullo sfondo un rapporto non sempre fluido tra Mef, il ministero dell’Economia, e governo col suo cerchio magico di super professori consulenti. Eppure i 10 miliardi della spending erano obiettivo assolutamente alla portata, oltreché decantato da mesi, declinato nei dettagli da Perotti e dal suo compagno di viaggio Yoram Gutgeld, anche lui ora defilato. «Ci si poteva arrivare facilmente», conferma il professore.
E invece il premier Renzi in conferenza stampa scandisce che «ci sono 4 miliardi di
RENZI PADOAN
tax expenditures, una sorta di bonus fiscali, sui quali sarebbe giusto intervenire, ma questo vorrebbe dire alzare le tasse e noi non vogliamo farlo». Peccato che Perotti mai e poi mai avesse suggerito di tagliare per quell’entità le detrazioni. «La mia proposta si limitava a un miliardo e mezzo», ecco. Una sforbiciata a quei sussidi non più sostenibili (su una massa totale di 160 miliardi), sacrificabili senza troppi sconquassi. E invece nulla.
La proposta di Perotti non passa. Gli obiettivi della spending vengono dimezzati. E soprattutto sparisce la qualità dei tagli. Così, il terzo commissario in meno di tre anni lascia, dopo Enrico Bondi (8 mesi nel 2012) e Carlo Cottarelli (un anno tra 2013 e 2014). Il secondo dell’era Renzi.
matteo renzi pier carlo padoan
Un’uscita forse un po’ inaspettata per lo stesso Perotti. «Avevo preso un anno sabbatico dalla docenza alla Bocconi, fino a settembre 2016, proprio perché credevo di restare più a lungo. Tra l’altro il mio incarico era a titolo gratuito e senza alcun rimborso, né per gli spostamenti né per l’alloggio romano». Insomma, il professore ci credeva.
Yoram Gutgeld
Prova a fare qualche altra proposta, caduta forse nel vuoto. Poi chiede un faccia a faccia finale con il premier, sabato scorso. Renzi non si sorprende. Se l’aspetta, il malumore di Perotti è cosa nota. Ma evidentemente non ritiene di dire o fare nulla per trattenerlo. Così, «amichevolmente», un altro commissario se ne va.