Gianmaria Tammaro per ''la Stampa''
Nel corso delle sue dieci stagioni, Murphy Brown ha sempre raccontato l’America e gli americani, il giornalismo e la televisione, la storia di una donna - una madre single, lavoratrice, anchorwoman con un passato di problemi - e dei suoi amici. Lo scorso anno, negli Stati Uniti, è partita una nuova stagione. In Italia va in onda su Joi ogni giovedì in prima serata. La protagonista, interpretata da Candice Bergen, decide di tornare in televisione con un nuovo show. Il mondo che conosceva, però, non c’è più. E ora il suo rivale numero uno è suo figlio.
murphy brown oggi
«Abbiamo scherzato per anni sulla possibilità di ricominciare, in particolare quando Sarah Palin si era candidata insieme a John McCain. Ci siamo convinti dopo le elezioni del 2016, quando la Warner Bros. ci ha incoraggiato a farlo. Molte vecchie serie sono tornate in onda; la nostra, però, è forse l’unica ad avere un buon motivo». Diane English è la creatrice di Murphy Brown. Racconta che, quando hanno iniziato, era tutto molto più facile: c’erano pochi canali e catturare l’attenzione del pubblico era più semplice. «Internet era ancora in uno stato embrionale, e le tv via cavo non erano ancora così forti. Oggi devi competere con centinaia di serie su tantissime piattaforme, senza considerare altre forme di intrattenimento come i videogiochi».
Alla fine, però, siete tornati: «Murphy Brown» è di nuovo in onda. Ospite della prima puntata: Hillary Clinton.
«Come molti americani, abbiamo sperato che il nostro attuale Presidente si sarebbe circondato di persone capaci e che le cose sarebbero andate per il meglio. Ma non appena è diventato evidente che non stava succedendo niente del genere, ci siamo decisi. Perché ce n’era bisogno, almeno per i nostri fan. Murphy Brown ha sempre avuto una voce forte».
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In che modo crede che sia cambiata la televisione in questi anni?
«I canali tradizionali sono diventati più conservatori. Molti dipendono dalla pubblicità e c’è un clima di costante competizione, e poi c’è la paura di offendere».
In che senso?
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«Negli Anni 70 andò in onda un episodio di Maude sull’aborto. Oggi probabilmente non sarebbe possibile senza il rischio di perdere finanziatori. Le tv via cavo e le piattaforme streaming sono diventate la normalità. E le persone sono abituate a guardare le serie senza pubblicità. I canali tradizionali si stanno avviando sulla stessa strada dei dinosauri».
Qualcuno dice che il tempo d’oro della televisione sia finito.
«Non penso che sia finito. Molto probabilmente continuerà finché ai creatori verrà data libertà, ed è una libertà che oggi arriva dai servizi a pagamento, come le piattaforme».
Perché crede che «Murphy Brown» abbia avuto così tanto successo?
«Per la buona scrittura e l’ottima recitazione, innanzitutto. E poi per la sua protagonista, abbastanza inedita per la televisione di allora. Si tratta di questo: di tempismo. In più, il paese stava uscendo da otto anni di governo di Reagan e si preparava ad altri quattro anni sotto Bush. Murphy ha sempre rappresentato una voce liberale, quasi di contro-programmazione».
«Murphy Brown» ha anche fotografato il cambiamento del giornalismo.
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«Non c’è nessun dubbio che i canali d’informazione siano cambiati. Oggi ci sono opinionisti che si mascherano da giornalisti, e le opinioni, come sa, non sono fatti. Forse l’unico a resistere è il giornalismo dei quotidiani».
Le persone vogliono la verità.
«Ma non sanno dove andare per trovarla. Fox News ha molta più influenza sulla politica americana di quanto riesca a immaginare, ed è un peccato. E poi c’è Internet, dove c’è tantissima disinformazione».
Qual è stata la sfida più difficile per tornare in onda?
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«Riuscire a tenere fede all’eredità che avevamo lasciato. Più di otto milioni di persone guardavano ogni episodio. E ogni puntata apriva a un dibattito. Ma devo dire la verità: ne è assolutamente valsa la pena».