Stefania Chiale per il "Corriere della Sera"
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Si chiamano Max e Berla, sono due pastori tedeschi di due anni e mezzo, mai utilizzati per altre attività di ricerca e oggi specializzati nell'individuazione di persone infette da Covid-19. Il risultato è frutto di una sperimentazione iniziata ad aprile e ancora in corso tra l'università degli Studi di Milano, l'Arma dei carabinieri e l'ospedale Sacco.
I risultati (i primi in Europa) potrebbero, se il comando generale desse parere favorevole all'impegno delle unità cinofile in questo ambito, offrire uno strumento straordinario nelle situazioni dove vi sia afflusso di grandi masse di persone, come concerti, manifestazioni, aeroporti o stadi.
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LA COLLABORAZIONE
La scorsa primavera l'università degli Studi di Milano e l'Arma dei carabinieri hanno sottoscritto un protocollo di collaborazione per l'impiego di cani del Centro cinofili carabinieri di Firenze nell'individuazione di soggetti affetti da Covid-19. La fase esecutiva del progetto è stata affidata al laboratorio di microbiologia, virologia clinica e diagnostica delle bioemergenze del Sacco diretto dalla professoressa Maria Rita Gismondo e al Comando interregionale carabinieri Pastrengo.
«Questo è il risultato intermedio di una collaborazione tra istituzioni - ha commentato ieri Gismondo presso il Comando provinciale dei carabinieri di Milano -: parlo a nome dell'università e dell'ospedale Sacco che ha ospitato la sperimentazione. Entrambe felicissime della collaborazione con l'Arma dei carabinieri».
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LA SPERIMENTAZIONE
Come si è svolta la sperimentazione dal punto di vista scientifico? «L'ospedale Sacco - ha spiegato la direttrice - ha fornito delle garze impregnate di sudore prelevato a malati di Covid ricoverati nel reparto di malattie infettive, ovviamente assicurando un percorso di totale sicurezza sia per gli operatori che per i cani».
Quindi «gli operatori hanno addestrato i cani a riconoscere le garze dei pazienti positivi distinguendoli da quelli negativi e dopo, mirabilmente, i cani sono diventati più efficienti dei nostri stessi strumenti: prima ancora che il tampone di un paziente fosse dichiarato positivo il cane l'aveva già individuato come soggetto positivo al Covid sedendosi accanto».
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Escludendo ovviamente «una sostituzione agli strumenti che abbiamo, è auspicabile nel futuro poter usare i cani anti-Covid come supporto ovunque vi siano ingressi di masse di persone», ha commentato Gismondo, sottolineando che «è la prima volta che si hanno questi risultati in Europa».
L'IMPRINTING OLFATTIVO
Da aprile a ottobre sono stati utilizzati 427 campioni di sudore, appartenenti a 127 pazienti, di età compresa tra i 21 e gli 86 anni, il 54% di sesso femminile e il 46% di sesso maschile. I cani hanno individuato i positivi, a prescindere dal sesso e dalla carica virale: il loro impiego si è focalizzato sulla individuazione e memorizzazione dello specifico odore da ricercare.
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Quindi è seguita la fase di dissociazione degli altri odori presenti nel campione. Realizzata la fase dell'imprinting olfattivo dei due cani, si è passati alle prove su individui positivi al Covid-19, tutti volontari, presso l'hub tamponi del Sacco.
Quest' ultima fase è stata particolarmente utile perché superava il contesto addestrativo simulato per evidenziare già uno scenario reale. I cani hanno un numero di recettori olfattivi che è 40-45 volte superiore rispetto a quello umano.
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«Il principio per cui il paziente possa alterare il suo odore è presente in tantissime malattie - spiega ancora Gismondo -: avevamo una quasi certezza che potesse accadere anche col Covid, ma bisognava sperimentare che il cane potesse distinguerlo». Ora sappiamo con certezza che può farlo.
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