Giulia Zonca per "la Stampa"
muhammad ali
Cerchi al posto delle teste come bersagli facili in un allenamento di boxe: le figure schizzate in tratti infantili da Muhammad Ali sembrano sacchi appesi ai ganci dalla palestra invece sono avvocati, giudici, pubblico morboso, una faccia più rotonda dell'altra. Stavano per condannarlo, per toglierlo dal ring e lui li avrebbe presi a pugni volentieri, ma li ha disegnati nel primo delle decine di soggetti che stava per realizzare in tanti viaggi, notti insonni, veglie di gloria. Fino a che le mani non si sono messe a tremare.
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Quei disegni sono andati all'asta da Bonhams, una casa specializzata in memorabilia di persone famose che ha aggiunto al lotto ganci immortalati in scultura, poster ritoccati e autografati, biglietti pasticciati, aeroplanini pieni di scritte, acquarelli con cui colorare una memoria già allora non così affidabile e i quadri di stile opposto al suo pugilato. Grezzi e non di classe come i colpi che lo hanno reso unico, immediati e non preparati come le vittorie studiatissime, semplici e non elaborati come il gioco di gambe eppure con la stessa efficacia: tanto diretti da mettere ko. Non per la bellezza o l'intuizione, per la sincerità.
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Quotati tra i 5 mila e i 60 mila dollari, a seconda delle dimensioni, sono stati battuti almeno al doppio. Una martellata dopo l'altra per inchiodare la leggenda alla storia. Non ce ne sarebbe bisogno, non esiste uomo più idolatrato, non si conosce biografia più spaccata e mandata a memoria da ogni generazione. Ali si è ritirato la prima volta nel 1979, data a cui risalgono molte delle sue prove d'artista, poi è tornato l'anno successivo, umiliato da Holmes e ha scoperto di avere il Parkinson. Fine dei pugni e fine dei disegni, è sparito ed è riapparso nel 1996, con una torcia in mano: ha acceso il fuoco delle Olimpiadi di Atlanta e il ricordo che ormai si rinnova ogni anno.
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Film, libri, documentari, l'ultimo («Muhammad Ali» di Ken Burns) è in questi giorni alla Festa del cinema di Roma e ora un'asta mostra il pugile all'improvviso fragile negli anni in cui si sentiva indistruttibile e senza dubbi nelle stagioni in cui aveva un sacco di domande.
Quelle violente a Malcom X, quelle retoriche lanciate contro i giudizi: «Che cosa mi hanno fatto di male i vietcong? Loro non mi hanno mai chiamato negro», è una delle più note. Dagli anelli furiosi ripetuti sul foglio che fotografa il suo processo al pezzo pregiato della collezione, «Sting like a bee», venduto a 366, 585 euro. Destro-sinistro. Pungi come un'ape e vola come una farfalla, tradotto su carta è quasi un fumetto. Si vede la folla intorno al quadrato e l'arbitro che se la dà a gambe mentre invita l'avversario di Ali a fare lo stesso.
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Non è la sola vignetta. In un'altra risponde indirettamente alla curiosità più frequente: «Che cosa pensa nell'attimo in cui sa di essere il campione? ». Ai dollari o almeno questo gli piace far credere nel suo soggetto dissacrante. Ricalca ogni momento chiave: dalla bandiera con cui si converte all'Islam e quella a stelle e strisce con cui dichiara il suo amore per gli Usa. Gli Stati Uniti rappresentati ai Giochi del 1960 con l'oro vinto come Cassius Clay e quelli riabbracciati nel 1996, da ultimo tedoforo e prima immagine che rompe l'idealità dello sportivo.
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Ali non ha mai disegnato o incarnato la perfezione, nella vita o negli schizzi ha spremuto il fastidio. Mette in scena lo schiavismo con poche linee curve, corde e profili. Ali si è appassionato all'arte da bambino, il padre dipingeva arazzi per gli altari battisti. Quando è diventato famoso ha incontrato LeRoy Neiman e l'artista che mescola pop e impressionismo è diventato compagno di sedute creative. Il meglio Ali lo ha dato nell'essenzialità. Del pugno, del tratto, così spietati entrambi e così urgenti e schietti da mandare al tappetto. Ancora, a 41 anni dal ritiro definitivo, a 5 dalla morte, lui resta l'uomo che disegna teste tonde da spaccare. Le metteva sul foglio per spegnere una protesta rimasta viva.
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