Alessandro Barbera per “la Stampa”
sergio mattarella mario draghi
La controprova della crisi al buio scoppiata a Roma sarà giovedì prossimo, quando a Francoforte si incontreranno i diciannove governatori della zona euro. Sul tavolo di legno pregiato all'ultimo piano del grattacielo sul Meno ci saranno due questioni rilevanti per l'Italia: la decisione di aumentare per la prima volta da anni i tassi di interesse e lo strumento grazie al quale evitare strappi al rendimento dei titoli più deboli sui mercati.
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La Banca centrale europea possiede ormai un quarto del debito italiano, e ciò eviterà contraccolpi finanziari gravi, almeno nel breve periodo, persino in caso di elezioni anticipate. Ma l'uscita dei Cinque Stelle dalla maggioranza di governo non poteva capitare in un momento peggiore. Prima di una riunione cruciale dei banchieri europei, del decreto che anticiperà la Finanziaria, nel pieno dello stop alle forniture di gas russo e del lavoro sul piano delle riforme.
lagarde
Ieri la Borsa di Milano ha perso tre punti e mezzo, e il differenziale sui titoli decennali rispetto al solido Bund tedesco è cresciuto fino a venti punti, salvo arretrare sulle voci di una soluzione parlamentare alla crisi: è il segno che gli investitori non sono ancora convinti che per Draghi sia suonato il gong. Filippo Taddei, capo della ricerca per il Sud Europa di Goldman Sachs, lo ha scritto in una nota: «Il rischio di elezioni anticipate resta basso, più facile che il governo duri fino alla primavera». In giro per le capitali europee nessuno però ha capito perché Giuseppe Conte abbia fatto venir meno il suo sostegno in pieno luglio.
Quanto più incomprensibili risultano le ragioni di una crisi, peggiori sono le conseguenze sulla credibilità italiana. Spiega un investitore sotto la garanzia dell'anonimato: «Se la prossima settimana non ci fosse più il governo, le resistenze tedesche alla concessione di uno strumento antispeculativo aumenterebbero».
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L'incubo dell'inflazione, mai così alta negli ultimi quarant' anni, sta spingendo Berlino a invocare aumenti più rapidi dei tassi e maggiore disciplina fiscale. Ieri lo ha detto apertamente il capofila dei rigoristi a Bruxelles e numero due della Commissione Valdis Dombrovskis: «L'Italia deve trovare equilibrio».
Nessuno pensa che il voto per l'Italia sarebbe una tragedia. Negli ultimi mesi è accaduto in Portogallo, Ungheria, in Francia si sono svolte presidenziali e politiche. Ma se venisse meno il governo ora, fino all'autunno l'Italia rimarrebbe senza un governo e un Parlamento nella pienezza delle funzioni. Per dirla con le parole del commissario italiano Paolo Gentiloni una crisi in luglio «non favorisce» in nessun caso l'Italia.
christine lagarde con mario draghi
Ieri è slittato il consiglio dei ministri che avrebbe dovuto affrontare il piano contro la siccità. A fine mese c'è in programma un decreto da dieci miliardi per confermare gli sconti sui carburanti, gli aiuti contro il caro energia, forse un provvedimento per ridurre l'Iva. Fin qui, provvedimenti che potrebbero essere firmati anche da un governo dimissionario. Se scivolassimo verso le urne, la conseguenza più grave sarebbe lo stop al Recovery Plan.
Le regole europee non lo vietano, ma significherebbe non incassare la seconda rata di quest' anno, venti e più miliardi di euro. Per chi investe e fa previsioni sulla tenuta del debito italiano, equivale a un punto percentuale in meno di ricchezza prodotta. Né è chiaro se lo stop a Nord Stream, il tubo che porta in Germania la gran parte del gas, sia momentaneo o se lo Zar di Russia si appresti a lasciare la locomotiva del Continente senza la principale fonte di energia: l'economia più interconnessa con quella tedesca era e resta quella italiana.
christine lagarde mario draghi
Il destino ha voluto che quasi dieci anni fa - era il 26 luglio del 2012 - Mario Draghi pronunciò il famoso discorso del «whatever it takes». Senza ciò che ne seguì, l'Italia sarebbe probabilmente finita in default e costretta a fare uso del fondo Salva-Stati, come allora accadde a Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Ieri i grandi investitori in titoli italiani non hanno venduto quasi nulla.
La fiducia nell'emittente Italia non è ancora venuta meno. Allora l'Italia era in piena recessione, oggi cresce ad un ritmo del due per cento. Ciò non significa che l'Italia non corra pericoli. I più avveduti sanno che la legge elettorale in vigore non garantisce una vittoria piena del centrodestra. E la guerra in Ucraina resta un enorme punto interrogativo per tutti. Ne sono consapevoli a Palazzo Chigi, lo sanno al Quirinale. Resta da capire se lo abbiano compreso fino in fondo i partiti della maggioranza delle larghe intese.