alex schwazer e sandro donati
Sulla Gazzetta dello sport un’intervista a Walter Pelino, il Gip di Bolzano che ha prosciolto Alex Schwazer dall’accusa di doping del 2016, con l’ormai celebre ordinanza di 80 pagine nella quale apertamente allude ad una macchinazione ai danni dell’atleta.
«Avevo scritto tutto quanto nell’ordinanza. Parlo ora proprio perché mi sembra che questa storia rivesta un’eccezionalità tale da farmi intervenire. Non aver ottemperato all’ordinanza da parte delle istituzioni sportive mi pare una gravissima violazione delle regole».
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Quando le è stato assegnato il caso Schwazer aveva già un’idea o è un mondo che ha conosciuto a mano a mano
«È stata una scoperta graduale. All’inizio non nutrivo nessun pregiudizio positivo nei confronti di Schwazer. Al contrario, era già stato dopato. Non godeva di un’immagine pulita».
Poi, i primi dubbi:
«Quando sono cominciate a venir fuori le difficoltà ad entrare in possesso dei campioni di urina. Tante obiezioni mi sembravano strumentali. Il sospetto era che si volesse bloccare la nostra perizia. Eppure, ricordo che alla prima udienza era pervenuta una lettera della Wada che si impegnava alla massima collaborazione, soprattutto sul tema della catena di custodia dei campioni. Ma poi, quando sono emerse delle falle proprio su quel versante, nessuno se n’è dato per inteso».
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Si è fatto un’idea dei meccanismi della giustizia sportiva lungo il percorso? Pelino:
«Sono allibito. Mi aspettavo ben altro. Le istituzioni sportive internazionali si sono limitate a buttare tutto sotto il tappeto. Ma la mancata osservanza dell’ordinanza si traduce in scarsa considerazione del nostro Paese e del nostro ordinamento giuridico».
Torniamo alla sua indagine e al momento cruciale della richiesta dei campioni da periziare. Pelino racconta:
«Abbiamo dovuto superare una raffica di tentativi di ostacolarci. Ricordo, per esempio, quello della presunta scarsità di materia prima per le analisi. Oppure l’indicazione fasulla della quantità contenuta nel campione B: 6 millilitri. In realtà erano il triplo. E i nostri esperti ci hanno assicurato che un errore di quella portata non sarebbe stato commesso da nessun tecnico, tanto meno da uno del laboratorio antidoping con la migliore reputazione del mondo. Poi hanno messo in atto passi giuridici per negarci i campioni, sostenendo fra l’altro che dovevano restare in loro possesso per eventuali cause civili future. E altro ancora».
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A quel punto sono saltate fuori le mail hackerate che si erano scambiate il laboratorio di Colonia, la Wada e la Federatletica mondiale.
«E sono state molto utili per le indagini. La loro veridicità era fuori discussione: gli stessi interessati avevano infatti dichiarato di aver subito l’hackeraggio. Lì dentro abbiamo trovato molti indizi sui tentativi reiterati di non consegnarci i campioni. Al di là della sostanza delle cose, si notava come i tre organismi, che sono personalità separate, agissero in realtà di comune accordo. Uno dei segnali che il sistema non funziona».
Pelino torna alla sofferta consegna dei flaconi.
«Con l’aiuto della corte di Colonia, finalmente otteniamo il flacone A. Ma non ci vogliono consegnare il B (quello che rimane sigillato per le controanalisi, ndr). E siamo costretti ad una seconda rogatoria internazionale. A quel punto è venuto fuori l’altro enorme pasticcio. Il colonnello Lago, dei Ris, è andato in Germania per ritirare i contenitori, ma si è trovato a ricevere un flacone anonimo, non sigillato, già scongelato, che i tecnici sostenevano essere stato prelevato dal flacone B.
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Una violazione gigantesca della catena di custodia. Lago mi ha immediatamente telefonato per dirmi che non avrebbe potuto accettare quel referto. A quel punto ho parlato personalmente col direttore del laboratorio, al quale ho fatto presente che avrei denunciato la cosa alla magistratura tedesca. E solo allora abbiamo avuto il vero flacone B».
Pelino parla del ruolo cruciale del colonnello Giampietro Lago, genetista di fama, che ha contribuito a risolvere fra l’altro i casi di Yara Gambirasio ed Elisa Claps.
«Certo. Si tratta di una persona eccezionalmente preparata dal punto di vista professionale e di tante qualità umane. Con lui si è instaurata una collaborazione perfetta. È al suo lavoro che dobbiamo la constatazione che nei due campioni, A e B, era presente una quantità di Dna clamorosamente fuori norma, dalle 20 alle 50 volte superiori alla media. Un’anomalia spropositata, a maggior ragione perché la quantità di Dna in un campione congelato decade rapidamente col passare del tempo. Tutto ciò portava alla conclusione che quei campioni erano stati trattati in qualche modo, come comprovato da nostri studi comparativi su centinaia di casi».
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Si sostiene che un eventuale complotto ai danni di Schwazer sia troppo complesso per essere stato messo in piedi per un solo personaggio, o al massimo due, comprendendo Donati.
«In realtà Alex, pochi giorni prima che il suo controllo a sorpresa venisse deciso, nel dicembre del 2015, aveva deposto a Bolzano in un altro processo contro i medici Fischetto e Fiorella, e aveva mosso accuse pesantissime: erano l’intero sistema dell’antidoping e il suo funzionamento a essere investiti da gravi rischi. C’era in ballo molto di più che le sole figure di Schwazer e Donati. Non so chi siano, ma mi sono convinto, proprio per quella sequenza temporale, che i mandanti di questa brutta storia siano italiani».
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C’è qualcosa che l’opinione pubblica non ha ben percepito dall’intera vicenda?
«Il vulnus giuridico, soprattutto. Wada e federatletica internazionale si erano costituiti parti civili nel procedimento. E questo ha una grande rilevanza nel sistema giudiziario: significa che le parti accetteranno l’esito del processo, qualunque esso sia. E invece, dopo l’ordinanza è cominciata una campagna di delegittimazione.
Mi ricorda la storia del bambino che, persa la partitella, se ne va infuriato portando via il pallone. Non si è nemmeno aperta un’indagine interna in quelle organizzazioni. Ma le nostre istituzioni hanno il dovere di difendere sé stesse e il loro lavoro. E devono pretendere il dovuto rispetto».
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