Alberto Mattioli per www.lastampa.it - Estratti
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Per l’inaugurazione della sua stagione d’opera, il Regio di Parma ha ripreso la produzione di Pesaro, griffata Pier Luigi Pizzi, del «Barbiere di Siviglia» di Rossini. Detto che la stagione è una stagioncina (tre titoli - e nessun Verdi -, mentre a Piacenza sono sei e a Modena nove), l’idea è risultata vincente.
Lo spettacolo di Pizzi, come al solito «all inclusive», regia, scene e costumi (solo le luci sono di Massimo Gasparon) è tipico di questa fase pizziana, e anche uno dei più riusciti.
Elegantissimo, ovvio, tutto in ogni possibile nuance del grigio dal bianco sporco al quasi nero, con pochi tocchi di colore nei costumi, anche il vietatissimo viola, alla faccia della scaramanzia, e raffinatezze strepitose, come una Rosina-Paolina Bonaparte sdraiata sul canapé con un’acconciatura stile Impero.
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Purtroppo, il palcoscenico del Regio è più piccolo di quello delle infami arene pesaresi e così il secondo atto finisce francobollato in un quadratino di scena che sacrifica un po’ l’azione, e il temporale è un po’ deludente, appena qualche lampo dietro le finestre. Però la serata è una gioia per gli occhi e tutti si muovono con una bella disinvoltura, oltre a essere ben caratterizzati.
Il problema del «Barbiere» è trovare il giusto equilibrio fra la commedia di caratteri e i momenti di follia organizzata e completa che pure ci sono: in questi casi Pizzi opta per un ponnellismo moderato che funziona perfettamente. Non manca la solita garbata presa per il beeep! della tipica ossessione emiliana per il cibo: in ogni momento si mangia e si beve, come già nel memorabile “Giorno di regno”, sempre a Parma.
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Se il regista è un Venerato Maestro, il direttore Diego Ceretta, 27 anni, è una Grande Promessa (a rappresentare il grado intermedio dei tre stadi arbasiniani della carriera, il Solito Stronzo, c’è solo chi scrive). Promessa in effetti è, e pure grande: bel polso, gran dominio dell’orchestra, qualche scelta un po’ troppo prudente. Non griderei al miracolo, per ora, però si tratta di una bacchetta da seguire con la massima attenzione.
E che sia sensibile allo Zeitgeist lo dimostrano certe pause incantate e sognanti nella surreale macchina ritmica della musica, che è esattamente quel che si vuole oggi in Rossini. Altro pregio, un «Barbiere» davvero integrale, con il rondò di Almaviva e finalmente i recitativi al gran completo: credo che sia la prima volta che li ho ascoltati tutti. Peccato per la serata non esaltante della Toscanini, mentre il Coro di Faggiani è una delle poche certezze che ci restano. Bravissimo Gianluca Ascheri al fortepiano.
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Il cast è dominato da Marco Filippo Romano che, oltre a sparare dei sillabati impeccabili a velocità supersonica, canta tutti i recitativi con una «erre» moscia che fa il verso a quella locale, o forse allo stesso Pizzi. Che poi nella sua aria faccia i tipici gesti da rapper nella sua aria è una chicca forse sprecata per un pubblico diversamente giovane come quello dell’opera, ma è una delizia di Pizzi che così spiega che i rapper non hanno inventato nulla: ci aveva già pensato Rossini.
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