Mauro Evangelisti per “il Messaggero”
test sierologici coronavirus
I risultati della grande indagine nazionale con 150mila test sierologici, per calcolare quanti italiani siano venuti a contatto con il coronavirus, dovevano fornire dati preziosi per gestire le riaperture. Il lockdown però è terminato da più di un mese, ma l'esito della ricerca non c'è. Anzi, i tempi sono stati dilatati, prorogati fino al 30 giugno. Come mai? Molti degli italiani ai quali la Croce rossa ha telefonato per chiedere collaborazione, rispondono no, grazie, non voglio fare il test sierologico. Ad oggi, sono stati eseguiti solo 50mila dei 150mila test previsti nel campione stilato dall'Istat, in rappresentanza di territori, fasce di età e professioni.
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TRAGUARDO
Per avere un risultato attendibile alla fine ci si assesterà su un campione di 35mila test, ma devono essere rappresentativi statisticamente (i 50mila non hanno ancora queste caratteristiche). In sintesi: siamo lontani dal responso. Come mai gli italiani stanno dicendo no? È un paradosso, visto che ogni giorno molti cittadini vanno nei laboratori privati, a pagamento, per eseguire il test di propria iniziativa.
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La causa è simile a quella del flop di Immuni. L'applicazione per il tracciamento, che pure garantisce l'anonimato, è stata scaricata solo da 3,5 milioni di italiani; a non volerla sul proprio smartphone magari sono gli stessi che si spaventano quando c'è un nuovo focolaio, per il quale le autorità sanitarie devono faticosamente rintracciare tutti i contatti, usando i vecchi metodi. Molto meno del 10 per cento degli italiani sta usando la app Immuni. Perché sia uno strumento efficace, dovrebbe essere presente nel 60 per cento degli smartphone.
In Germania, nazione che pure ha avuto molte meno vittime dell'Italia, un'analoga applicazione è stata scaricata da quasi 10 milioni di cittadini. Per chiudere il cerchio, va ricordato che, secondo un sondaggio, quasi un italiano su due direbbe no al vaccino per Covid-19 (se mai sarà scoperto).
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Eppure il coronavirus nel nostro Paese ha ucciso quasi 35mila persone. Il professor Walter Ricciardi, docente dell'Università Cattolica di Roma e consigliere del ministero della Salute, offre questa doppia spiegazione: «Ci sono due elementi: il primo è l'obiettiva distanza tra gli italiani e la scienza; per gli italiani, le questioni scientifiche rimangono difficilmente comprensibili. Secondo elemento: bisogna migliorare la comunicazione, fare capire che iniziative come la campagna dei test sierologici sono importanti.
Forniscono degli elementi alla scienza che possono aiutare tutti. Le istituzioni devono fare sforzi maggiori per spiegarlo». Altro tema: «Molte persone temono, se risultassero positive al sierologico, di dovere restare isolate in casa in attesa del successivo tampone. Invece, bisogna spiegare bene che il servizio sanitario nazionale si farà carico del percorso. E le Regioni devono assicurare tempi rapidissimi per i tamponi».
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ATTESA
Terreno minato: se sono entrato in contatto con un positivo e sono stato informato dalla notifica dell'app Immuni (ma anche se sono risultato positivo al test sierologico), comunque mi serve la verifica del tampone che mi dica se sono contagiato. Molti non installano l'applicazione non perché siano gelosi dei propri dati personali (visto l'utilizzo forsennato in questi giorni del giochino Face App questa non è una delle priorità degli italiani), ma perché non vogliono ritrovarsi bloccati a casa dalla famigerata notifica. A Bari una signora ha raccontato di essere proprio in questa condizione di attesa.
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Per questo è necessario che le Regioni garantiscano tempi rapidi per i tamponi. Ma cosa sta emergendo dai primi risultati della campagna nazionale con il test sierologici? Non ci sono anticipazioni, ma si possono valutare gli esiti delle ricerche delle Regioni: nel Lazio il 2,4 per cento dei cittadini ha sviluppato gli anticorpi e dunque è stato positivo; nel Nord quella percentuale è più alta, supera il 10 per cento in Lombardia, ma arriva anche al 40-50 nei piccoli paesi maggiormente colpiti.
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