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Jonathan Liew, del Guardian, ha letto l’intervista a Jan Vertonghen che ha pubblicato anche il Napolista, nella quale il difensore descrive i suoi nove mesi in campo dopo un fortissimo colpo alla testa, disorientato, quasi incosciente. Ed è andato a ripescare i commenti sui social dei tifosi del Tottenham all’epoca, che lo guardavano vagare per il campo come un oggetto estraneo. Cattivissimi: “Le gambe sono andate”, “Triste, ma non ha la più pallida idea di che giorno sia”, “Portate questo clown fuori dal mio club”, “Finito”, “Disgrazia totale”, “Vendetelo”, “Un pezzo di legno morto”, ecc. ecc.
Ora sappiamo cosa stava succedendo al nazionale belga: continuava a giocare dopo quella che gli inglesi chiamano “concussion”, una commozione celebrale. Che è un argomento in prima pagina da settimane, da mesi, in Inghilterra. Tanto che in Gran Bretagna stanno proibendo il colpo di testa nelle scuole calcio e negli allenamenti delle giovanili. In Italia questo dibattito è inesistente.
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Ma l’editorialista del Guardian va oltre, e sottolinea un aspetto del rapporto tra lo sport e il dolore, e il pericolo, che tutti sottovalutiamo: fa parte dell’intrattenimento, chi viene pagato accetta tutti i rischi del caso, e noi che paghiamo è come se acquistassimo anche la possibilità che qualcun altro si faccia male per il nostro divertimento. È il capitalismo dello sport.
«Una domanda da considerare mentre leggi tutto questo è come ti fa sentire? Triste? O triste con un “ma”? Ma: Vertonghen e Thompson sapevano cosa stavano facendo. Ma: sono stati profumatamente pagati per i loro problemi. Ma: non puoi vietare i colpi di testa nel calcio, è semplicemente ridicolo. Ma: chiunque di noi potrebbe subire una lesione cerebrale traumatica semplicemente camminando per strada e ti cade un pianoforte in testa. La vita è rischiosa. Lo sport è pericoloso. Forse questo è il momento di considerare ciò che dobbiamo alle persone che rischiano la loro sicurezza per il nostro divertimento»
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Per Liew ormai lo sport commerciale si muove in parallelo con “l’idea che il pericolo non sia solo parte dell’emozione di base dello sport, ma anche il punto stesso. Che l’essenza dello sport è legata al sacrificio. Che a un certo livello siamo tutti animalisticamente dipendenti dal metterci alla prova, spingerci oltre, spezzarci. O per lo meno, guardando gli altri che lo fanno, con una birra in mano”.
E dunque “Vertonghen ha continuato a giocare perché sentiva che la sua carriera era in gioco. Nessun documento scientifico potrà mai ignorare la motivazione del profitto. E quindi concentrarsi sull’autonomia personale significa ignorare la misura in cui gli atleti, come tutti i lavoratori, sono cooptati in un’economia che non hanno scelto e su cui hanno poca o nessuna influenza.
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Questo è, ovviamente, il modo in cui funziona il capitalismo sportivo: mi diverto, vieni pagato e tutto il resto è una vetrina. Il capitalismo sportivo semplicemente compra la tua fatica, i tuoi problemi di salute mentale, le tue insicurezze, la tua qualità di vita, la tua perdita di memoria, il tuo dolore. Se ti strappi un legamento, è finanziariamente controproducente per il tuo club farti giocare. Ma una commozione cerebrale? Beh, non è visibile, quindi … che ne dici di tenertela?”
Siamo in “un sistema che considera essenzialmente l’atleta come impianto industriale: una parte, uno strumento, una risorsa da cui estrarre valore prestazionale. Ma in parte è un processo a cui partecipiamo tutti. E per quelli di noi che amano lo sport, forse questo è un momento per considerare ciò che dobbiamo alle persone che rischiano la loro sicurezza per il nostro divertimento. Ricordare che il welfare non inizia e finisce con un salario”.
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