Testo di Ian Buruma pubblicato da La Stampa
Ian Buruma
Sono un figlio del Vecchio Mondo che vive nel Nuovo. Ai miei occhi di europeo il sorriso degli americani, la loro insistenza sulla felicità, appare un po' infantile. Ma c' è qualcosa di bello nella costituzione americana. Il fatto che un cittadino abbia il diritto non solo di sopravvivere o di vivere al sicuro, ma di cercare la felicità, è una cosa straordinaria. Fa sperare che la vita si possa perfezionare, che la gente possa sfuggire all' oppressione e alla povertà e avere una seconda chance.
È l' opposto del fatalismo. Perché accontentarsi di essere poveri, o intrappolati in un lavoro noioso o in un matrimonio infelice, se si può ricominciare tutto da capo ed essere felici? Questo spiega il dinamismo dell' America. È il motivo per cui così tanta gente continua a trasferirsi dall' Europa, ma anche dall' Africa e dall' Asia, nel Nuovo Mondo.
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Ma che la vita possa diventare perfetta è anch' essa un' illusione. È raro che chi nasce povero finisca per diventare ricco, e anche quando succede il risultato non è sempre la felicità.
Pochi matrimoni sono perfettamente felici. Ricominciare da capo non garantisce una maggiore felicità. L' equivalenza americana fra successo materiale e felicità non è solo superficiale ma di fatto abbastanza crudele. Dato che la maggior parte delle persone non riescono a essere felici per la maggior parte del tempo, il senso di fallimento che ne deriva può condurre con facilità al risentimento e alla violenza, contro gli altri o contro se stessi.
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U n tempo la religione offriva a molti una forma di consolazione. Anche se la vita era una valle di lacrime, ti aspettava il Paradiso. E anche se non c' era un Paradiso ad aspettarti, potevi trovare del freddo conforto nell' idea che siamo tutti destinati a soffrire, e non c' era bisogno di viverla come una tragedia, tantomeno di considerarlo un fallimento personale. Dopotutto, era la volontà di Dio.
Ma se non cerchiamo una risposta esistenziale nella religione, né nel sorriso americano, dove andiamo a guardare? Prima di trasferirmi nel nuovo mondo ho passato qualche anno in Giappone.
Non sono mai stato attratto dalla spiritualità orientale.
Non ho trascorso del tempo nei monasteri zen, o ai piedi di qualche mistico pieno di saggezza. Ma sono diventato un ammiratore dei film di uno dei grandi maestri del cinema giapponese, Ozu Yasujiro.
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I film di Ozu, specie quelli realizzati dopo la seconda guerra mondiale, seguono spesso uno schema simile. I personaggi più giovani cercano una vita felice, a volta sotto l' influenza delle ottimistiche promesse della cultura americana: un matrimonio romantico, il successo nella grande città o una maggiore libertà individuale. E immancabilmente falliscono. Le convenzioni sociali, l' inconsistenza del successo materiale, la necessità di tenere in considerazione gli altri e via dicendo rivelano i limiti di ogni aspirazione umana. La società non può funzionare senza le restrizioni sociali. Gran parte della vita è deludente. Il matrimonio non è un' ininterrotta storia romantica.
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Ma nei film di Ozu c' è sempre un momento di grazia, quando i personaggi arrivano a rendersi conto di questa cosa e ci si rassegano. Ci può essere della bellezza nell' accettare la vita così com' è, e nella consapevolezza che i momenti di felicità sono sempre effimeri. In questo consiste la saggezza, che si potrebbe anche definire una forma di felicità.
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