Da “La Stampa”
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Di questo passo Zlatan Ibrahimovic finirà per pubblicare più libri di Georges Simenon, bulimico fuoriclasse con la macchina da scrivere almeno quanto lo svedese lo è con il pallone. Il centravanti del Milan ha appena girato la boa dei 40 anni e la sua vita è sempre stata in copertina.
Da un po' di anni ha riempito fior di pagine e quest' ultima fatica, posto che per lui lo sia stata, condivisa con Luigi Garlando (prima firma de La Gazzetta dello Sport) racconta molto di quello che ancora non si sapeva della sua interminabile carriera. Adrenalina è il titolo, le storie non raccontate il sotto titolo. Lui, come al solito, ci mette la faccia. E la sua visione del mondo.
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SU CALCIOPOLI: “COME È POSSIBILE CHE QUALCUNO ABBIA ACCETTATO QUEL TITOLO?”
Estratto da “Adrenalina”, di Zlatan Ibrahimovic (Cairo Editore), pubblicato da “La Stampa”
Spesso mi chiedono: «Ma alla Juve non ti sei accorto che gli arbitri erano diventati improvvisamente più buoni?». Rispondo: «No, in campo mi accorgevo soltanto che eravamo i più forti. Vincevamo per questo».
Ero ancora giovane, per me l'arbitro continuava a restare un nemico. Noi undici, loro dodici. Non riuscivo a sentirlo dalla mia parte. Al Festival di Sanremo mi hanno scritto qualche appunto per il mio discorso. Ero così concentrato che non mi sono reso conto dell'errore. Mi hanno fatto dire che ho vinto undici scudetti e invece ne ho vinti tredici. Uefa e Federcalcio non hanno contato i due tolti alla Juve in seguito allo scandalo di Calciopoli, ma io li considererò sempre vinti, al cento per cento.
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Me ne fossi accorto, avrei detto tredici e non undici. Quando entro allo Stadium di Torino e vedo il numero 38 accanto allo scudetto tricolore, io non penso a un errore, penso che quello sia il numero esatto e che quella sia la vera giustizia: noi abbiamo vinto quei due scudetti perché noi eravamo la migliore squadra d'Italia e poi ce li hanno tolti. Non so se sia stato manipolato in qualche modo il sistema e non mi interessa saperlo.
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Per scelta, ho deciso fin dall'inizio di non seguire l'inchiesta e le polemiche. Però so che nessuno ha manipolato le mie corse in campo, i miei gol, la mia fatica in allenamento, le mie ferite, i miei infortuni. E nessuno ha manipolato il sudore e il talento dei miei compagni.
Dopo settanta-ottanta partite, vince solo chi è più forte: è la giustizia del campo quella che conta nello sport. Perciò continuerò a sentire miei i due scudetti che ci hanno tolto. Come è stato possibile darne uno dei due a qualcun altro? E come hanno fatto gli altri ad accettarlo? Se squalifichi quello che ha vinto e dai a me la sua medaglia, io non la voglio. Anzi, mi offendi se me la dai. Se io vado in giro con quella medaglia al collo e dico «Ho vinto!», è indegno.
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SUL DIFENSORE: “LA SUA STRATEGIA? INNERVOSIRTI ED ENTRARE SOLO PER FARE MALE”
Estratto da “Adrenalina”, di Zlatan Ibrahimovic (Cairo Editore), pubblicato da “La Stampa”
All'inizio della carriera, la mia testa era come una bomba. Bastava una scossa per farla esplodere. I miei avversari lo capivano subito e cercavano di approfittarsene, provocandomi apposta. Anche alla Juventus, dopo aver fatto un tratto di carriera importante, mi capitava ancora di perdere il controllo. Una partita contro il Bayern Monaco, per esempio. Michael Ballack mi puntò dall'inizio: parole, insulti, falli con la palla lontana. Ci sono cascato. Due gialli e ciao. Poi sono cresciuto.
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Qualcuno mi ha consigliato: «Zlatan, cambia la direzione alla tua rabbia. Non puntarla contro l'avversario o contro l'arbitro, ma buttala nel gioco. Metti più rabbia nel tuo calcio e vedrai che così riuscirai a vendicarti di chi ti provoca, senza farti squalificare». Nel ghetto di Malmö, se qualcuno mi diceva qualcosa, io dovevo rispondere. Se incrociavo un tipo che mi chiedeva: «Cazzo guardi?», io ribattevo subito: «Cazzo guardi tu?». In strada, da noi, funzionava così.
C'erano dei codici precisi da rispettare. E quei codici io li portavo in campo. Prima ci colpivamo con le parole, poi ci si avvicinava per vedere chi fosse più forte mentalmente e fisicamente. Ero giovane, reagivo d'istinto perché non avevo ancora autocontrollo, mentre i giocatori esperti lo facevano apposta per provocarmi. Come Sinisa Mihajlovic'in quell'Inter-Juventus. Mi insultò dal fischio d'inizio.
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A un certo punto gli ho tirato una testata che mi è costata una squalifica. Ci ero cascato un'altra volta. Mihajlovic non mi odiava, non aveva nulla di personale contro di me. Voleva solo procurare un vantaggio alla sua squadra e vincere la partita. Marco Materazzi invece era un caso diverso. Entrava per farti male. Al di là delle ragioni della partita, aveva una strategia personale per innervosire l'avversario.
Quando uno non è abbastanza bravo nel gioco, ricorre a tutti i mezzi per imporsi. Era il suo stile. Ma se certe cose le fai a me, io non le dimentico, perché mi resta una cosa qui dentro, nel petto, che non passa. Ho aspettato cinque anni per riuscire a beccarlo. Juventus-Inter, 2 ottobre 2005.
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Materazzi portava quelle lenti a contatto speciali Nike, allora popolari, che alteravano il colore degli occhi. Ricordo due pupille rosse, da belva, che mi braccavano dappertutto. Riesce a prendermi bene, con un'entrata a due piedi, a forbice. Devo uscire dal campo per farmi medicare. Zoppico. Capello mi vuole sostituire, ma io gli dico: «No, mister. Ce la faccio». Rientro solo per cercarlo. A questo punto il calcio non c'entra più, per me la partita è già finita. Ma non riesco neppure a camminare per il dolore, Capello se ne accorge e mi fa uscire. Comincia l'attesa.
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