Dario Salvatori per Dagospia
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Non si può certo dire che i cinquant’anni della morte di Igor Stravinskij (1882-1971) siano stati ricordati con attenzione. Eppure stiamo parlando di un compositore che con la sua sensibilità iconoclasta ha riscritto i principi della musica del nostro tempo. Musica classica, naturalmente. Ma la sua scia ha influenzato il mondo del jazz e del rock.
La sua curiosità era fuori dal normale e già nel 1945 pubblicava “Ebony concert”, un omaggio alla musica afro-americana, un lavoro che colpì molto Duke Ellington, che lo copiò abbondantemente nei suoi “concerti sacri”, dal 1965 al 1973. Quando viveva a New York, Stravinskij aveva un rapporto famelico con i nuovi generi musicali.
james brown
Nel 1951 volle andare al “Birdland”, il più noto jazz-club del momento, per ascoltare Charlie Parker, stilista puro di be-bop. Durante l’esecuzione di “Ko-ko”, uno dei suoi brani più celebri, il sassofonista, scorgendo un ospite tanto illustre, citò improvvisamente “L’uccello di fuoco”, quando il Maestro ebbe un sussulto, al punto che gli si frantumò il bicchiere nelle mano.
Tanto per dire che Parker non era soltanto un funambolico improvvisatore ma anche un ottimo conoscitore di certa musica europea. Non fu soltanto Parker a subire citazioni e influssi del vasto repertorio di Stravinskij, lo fecero anche Joni Mitchell, gli Yardbirds i King Crimson, Ornette Coleman, Alice Coltrane, Weather Report, Peter Gabriel e addirittura i Metallica. Frank Zappa lo venerò per tutta la vita.
Già nel 1968, nell’album “Cruising with Ruben & The Jets”, riprese il tema di apertura della “Sagra della primavera”, riproponendolo per quattro volte con quattro organici diversi e nessuno fra gli appassionati di rock se ne accorse. “L’espressività - disse più volte Zappa - non è mai stata una proprietà intrinseca della musica: se lo esprime è una illusione.” La frase non era sua ma di Igor Stravinskij, ma ancora una volta pochi se ne accorsero.
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Nel 1970 il Maestro era intenzionato a compiere un lungo tour europeo, dirigendo personalmente il suo repertorio. Aveva 87 anni e i medici sconsigliarono a priori un simile stress. Non si diede per vinto. Rinunciò al tour ma non alle sue città preferite, ovvero Parigi, dove era vissuto, Venezia, dove sarebbe stato tumulato e Roma, la città che lo divertiva di più. Alla fine si dovette accontentare di una sola città: Roma. La Filarmonica organizzò un incontro-omaggio e invitò alcuni critici. Scrivevo per “Ciao 2001”, settimanale di musica che all’epoca vendeva trecentomila copie.
Mi sarebbe piaciuto chiedere qualcosa riguardo al perché i musicisti jazz e rock sentissero così forte la sua influenza. Ma non si presentò l’occasione per la domanda. Lo scranno senatoriale dei critici di musica classica era al completo, da Fedele D’Amico a Mario Rinaldi, da Mario Bortolotto a Guido Pannain, giù a chiedere se dopo la morte di Schonberg si sentisse il depositario della dodecafonia, oppure se la sua opera potesse configurarsi nell’ideologia piuttosto che nell’idealismo. Alla fine il Maestro mostrò segni di insofferenza e disse: “Sappiate che rimango fedele alle mie tre B, ovvero Bach, Beethoven e Brown.” Panico. Tutti a chiedere chi fosse il titolare della terza B, ovvero Brown. Silenzio.
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“Bene, non lo sapete! Vogliamo vedere che se lo chiedessi al vostro giovane collega con la giacca rossa saprebbe rispondere?”. Da quasi imbucato passai a primo indiziato dell’ira del Maestro, comunque risposi: “Si, certo. James Brown è uno dei nostri idoli. Re del soul e del rhythm and blues, si balla molto bene.”. Ancora sbigottimento: “Sappiate che adoro il primitivismo di questo artista, credo che sia uno dei principali compositori di musica popolare afro-americana.” Nessuno ebbe la forza di smentirlo. Vorrei vedere.
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