1 - KURT COBAIN CHE TU SIA NEL NIRVANA
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
danny goldberg serving the servant libro su kurt cobain
Venticinque anni fa - lui ne aveva ventisette. Non sono stati la morte prematura e quel colpo di fucile che si tirò il 5 aprile del 1994 nel garage della villa di Seattle a trasformare Cobain in un martire del grunge, ma le circostanze di un suicidio annunciato fin da quando i Nirvana avevano iniziato il loro percorso underground, nel 1987 ad Aberdeen, stato di Washington.
danny goldberg con kurt cobain courtney love e la loro figlia frances bean cobain
E a sentire i racconti di chi lo frequentava quotidianamente, come Danny Goldberg, manager della band - che ora pubblica la biografia Serving the servant - destinato a una fine precoce a causa della patologica fragilità che lo tormentava dall' infanzia.
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A Seattle non c' era un granché da fare all' inizio degli anni Novanta, a parte stordirsi di grunge nelle cantine intorno a Pioneer Square. Il tour era obbligato: una visita alla tomba di Jimi Hendrix nella vicina Renton, uno sguardo dall' esterno al club dove John Coltrane aveva inciso il leggendario Live in Seattle ( diventato un ristorante indiano), la visita rituale all' Edgewater Hotel dove avevano soggiornato i Beatles, un concerto rock al Moore Theatre.
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Gli addetti stampa avevano un bel daffare a trastullare i giornalisti arrivati per intervistare i Nirvana, nel 1991, sulla scia del boom di Nevermind. La band era la punta di diamante della rivoluzione post- punk, Kurt Cobain il profeta. Era solo l' inizio, ma il rocker si stava già consumando: jeans logori, Converse sfondate, camicia di flanella a quadri, magrissimo, emaciato, trascurato. Maledetto e bellissimo.
Si annoiava con i giornalisti, sempre gli stessi che ciclicamente riapparivano in città per intervistare Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden o Alice in Chains. Si stiracchiava, sbadigliava e pretendeva di invertire i ruoli - fare lui le domande. Un collega tedesco, chiaramente infangato di grunge dalla testa ai piedi, uscì devastato dall' incontro con il suo idolo.
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« Avrei voluto dirgli: stai male, si vede, molla questa merda, vieni con me in Germania, i miei genitori ti faranno mangiare sano e ti rimetterai in sesto», ripeteva disperato. Era chiaro che più il grunge usciva allo scoperto, abbandonando la comfort zone dell' alternative rock, più Cobain sprofondava all' inferno.
danny goldberg kurt cobain
La situazione personale e familiare era ben più drammatica quando, nell' estate del 1993, affrontò la promozione di In utero, il terzo e ultimo album di studio di Nirvana. Il grunge era diventato commerciale, un sacrilegio per i fan, il momento di gloria che Seattle aspettava da decenni. Raramente si è vista una città, se non New Orleans, fiorire con la musica. Non più solo la Boeing, ora anche Microsoft, Starbucks e Amazon erano aziende potentissime - ma era il grunge che attirava orde di turisti.
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In appena due anni il centro di Seattle aveva avviato un piano di riqualificazione che la stava trasformando in una nuova San Francisco, accogliente, vivibile, gay friendly ( boom demografico, investimenti multimilionari, un avveniristico Museum of Pop Culture finanziato da Paul Allen della Microsoft e progettato dall' architetto Frank Gehry). Il rapporto simbiotico che Cobain, Eddie Vedder e gli altri avevano stabilito con i fedelissimi e la città diventò invece controproducente. Il successo commerciale mise uno contro gli altri; i fondamentalisti del grunge cominciarono a ringhiare agli artisti, e Cobain si caricò di tutte le responsabilità.
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Sbandato, eroinomane, vittima di una situazione familiare difficile - il matrimonio con Courtney Love, anche lei dipendente, non era un valido sostegno; voleva portare la sua band, gli Hole, al livello dei Nirvana; la nascita della figlioletta Frances Bean, tra Nevermind e In utero, fu croce e delizia per entrambi - Cobain cominciò a deragliare proprio mentre la città risorgeva.
Tutto ciò che avrebbe titillato l' orgoglio di un cantante pop, per lui era veleno. Intossicato dall' eroina e dal successo, istigato e spietatamente monitorato dai fan, trovava insopportabile che la sua arte stesse degenerando in consumismo. Nel 1993, quando Marc Jacobs disegnò la famosa collezione grunge per Perry Ellis per Cobain fu troppo. Non ci sarebbe stato un altro disco di studio dopo In utero, solo quell' Unplugged in New York, pubblicato postumo che è diventato il termometro della sua disperazione.
occhiali e portafogli di kurt
Né avrebbe mai saputo che quei pochi dischi avrebbero venduto 75 milioni di copie.
Ci sono artisti che si consumano con la loro arte, Jean-Michel Basquiat o Kurt Cobain, Arthur Rimbaud o Sid Vicious, Franz Schubert o Sylvia Plath. La loro eredità è potente - in tutto quello che hanno raccontato, scritto, dipinto, cantato, c’è spalmata la loro esistenza. La morte diventa inaccettabile per chi ne ha subito l’incantesimo.
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Nel rock, il lutto si metabolizza in modi bizzarri: tutti lì a pretendere di razionalizzare l’irrazionale, a non accettare l’evidenza, a romanzare storie di ordinario mal di vivere. Quando Eddie Vedder dei Pearl Jam, la band “rivale”, poche settimane dopo il suicidio di Cobain si sposò a Roma con la prima moglie Beth Liebling, i grunge-boys lo misero all’indice per non aver osservato un doveroso periodo di lutto (anni dopo, in un’intervista a Repubblica, Vedder avrebbe rivelato che un fan aveva cercato di uccidersi schiantandosi con la macchina contro il muro della sua residenza di Seattle — tenne l’episodio segreto per evitare emulazioni).
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La solitudine di Cobain è ben raccontata nel film Last days (2005) di Gus Van
Sant più che nei molti, troppi documentari con cui gli eredi si sono fatti la guerra, o nelle relazioni degli strizzacervelli che, già quand’era in vita, pretendevano di cristallizzarne le disfunzioni per redigere improbabili sociologie del grunge. Fosse vissuto oggi, puro e delicato com’era, non avrebbe tollerato l’aggressione dei social. Ventisette anni sarebbero stati troppi per lui.
2 - QUANDO CERCAMMO DI SALVARLO
Anticipazione del libro “Serving the servant” di Danny Goldberg pubblicato da “la Repubblica”
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Il 4 marzo 1994 Courtney mi chiamò: Kurt aveva avuto un' overdose di Roipnol a Roma e si trovava in ospedale privo di sensi, tra la vita e la morte. Stava piangendo, e pregammo insieme. Ero sconvolto, ma non credevo, non volevo credere che potesse morire. La notizia trapelò subito, e nelle ore successive molti amici preoccupati mi telefonarono. Janet era in contatto con Courtney e mi aggiornava regolarmente.
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Alla fine arrivò la notizia che aveva ripreso conoscenza, e che ce l' avrebbe fatta. Visto che la sua morte sarebbe avvenuta solo un mese più tardi, l' overdose di Roma è diventata parte integrante delle speculazioni sulla vita e sul suicidio di Kurt, ma all' epoca tirai un sospiro di sollievo. Stava bene! Stupidamente, credevo che quell' orribile avvisaglia lo avrebbe in qualche modo allontanato dai suoi comportamenti autodistruttivi. (...) Quando finalmente parlai con Kurt al telefono erano passati alcuni giorni.
Era adorabile come sempre, ma molto debole. Due settimane dopo tornarono a Seattle e, senza che io ne sapessi nulla, Courtney dovette chiamare la polizia: Kurt si era chiuso in una stanza in cui c' erano delle armi da fuoco, ed era terrorizzata che potesse farsi del male.
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Pochi giorni dopo, il 24 marzo, Courtney mi spiegò che voleva intervenire. Aveva già contattato alcune persone e mi convinse a raggiungerli a Seattle il giorno successivo. Non lo aveva mai visto in quello stato, e per la prima volta da quando Frances era nata, nemmeno stare con la piccola sembrava sollevarlo.
Negli ultimi due anni avevo vissuto parecchi momenti difficili con Courtney. L' avevo vista disperata, infuriata e strafatta, ma era la prima volta che nella sua voce sentivo la paura. Il mattino dopo, al Jfk, incontrai Janet e il consulente antidroga che aveva contattato, David Burr, e prendemmo un volo per Seattle. (...)
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Verso mezzogiorno raggiungemmo la villa che Kurt e Courtney avevano comprato al 171 di Lake Washington Boulevard. Kurt era seduto sul pavimento del grande salotto, accanto al suo vecchio amico Dylan Carlson, chitarrista e cantante di un gruppo indie rock di nome Earth.
A Olympia erano stati compagni di stanza per qualche tempo. Avevano lo sguardo vitreo e l' odioso autocompiacimento del tossico, come se si sentissero gli unici due membri di un qualche club esclusivo.(...) Kurt era sulla difensiva, il che non mi sorprese: in fondo eravamo piombati a casa sua senza preavviso, e le nostre intenzioni erano chiare.
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Il mio messaggio era semplice: "Capisco che sei infelice, ma non puoi risolvere davvero quello che ti tormenta se prima non ti disintossichi". Kurt mi fece tutto un discorso sul fatto che si sentiva in trappola, che lo riconoscevano ovunque andasse il tutto mentre Dylan annuiva comprensivo. Io ero irritato e offeso per le banali scuse da tossico che mi stava propinando, ma sapevo che in quel momento si sentiva sotto attacco, così feci un respiro profondo e cercai di analizzare la questione in maniera semplice. Gli ricordai che era famoso da più di due anni, e quasi sempre era bastato camuffarsi un po' per eludere i fan. Che c' entrava la celebrità con l' eroina?
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