Estratto dall’articolo di Mattia Ferraresi per www.ilfoglio.it
trump bannon
Umiliato con tanto di nomignolo (“sloppy Steve”) da Donald Trump, scaricato dalla famiglia Mercer, reso piccino dal buco nell’acqua elettorale in Alabama, bocciato nel progetto di trasformarsi nell’aiuto esterno del presidente e messo sulla graticola da un giornalista, Michael Wolff, che spartisce molto con la corte trumpiana che velenosamente motteggia, alla fine Steve Bannon ha perso anche il feudo di Breitbart. Il consigliere più romanzato di questa criptica fase politica non ha più un orecchio nel quale sussurrare.
SCONTRO BANNON TRUMP
Ieri ha annunciato le dimissioni dal ruolo di executive chairman che ricopriva dal 2012 con una dichiarazione senza accenno di spiegazioni: “Sono fiero di quello che il team di Breitbart ha ottenuto in un periodo così breve, costruendo una piattaforma giornalistica di primo livello”.
Bannon ha perso la sfida con il clan di Trump e con la storia. Il presidente non gli ha perdonato le dichiarazioni a proposito dell’incontro “treasonous” combinato dal figlio Don Jr. con certi emissari russi alla Trump Tower e nelle disastrose elezioni in Alabama ha avuto la prova che la trovata dell’avanguardia bannoniana che guida la carica del trumpismo fuori dalla palude di Washington era un pessimo affare.
La base, forza costantemente invocata per giustificare l’esistenza di imbonitori al seguito del presidente, ha scelto di stare con Trump, e così hanno scelto anche i Mercer, che due mesi fa hanno dato un segnale chiaro a Bannon e dopo l’uscita di “Fire and Fury” hanno affondato la lama nel corpaccione esausto di questo “nazionalista economico” e cacciatore di globalisti allevato a Goldman Sachs e nato con la doppia camicia. Che l’annuncio della sua ultima diminutio sia arrivato nel giorno in cui Trump ha detto che andrà al World Economic Forum di Davos ha l’aria di una grande beffa ideologica per Bannon.
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