Estratto dell'articolo Maurizio Crosetti per “La Repubblica”
FRANCO CAUSIO
La maglia numero sette, un paio di memorabili baffi, una divisa quasi sempre bianconera, le finte, il dribbling micidiale, i cross perfetti. Questo era Franco Causio detto “Brazil” ma anche “il Barone”, per l’eleganza del gesto oltre che per gli estri sudamericani. Campione del mondo a 32 anni con l’Italia di Bearzot, nel 1982 […]
Causio, le piace il calcio di oggi?
"Mi addormento. Ci sono giocatori che non so neanche da dove arrivino: ma l’ultimo mercato dove sono andati a farlo? Chiedo a mio figlio come si pronunciano quei nomi, e a volte nemmeno lui lo sa”.
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Poi, però vanno in campo. Con quali risultati?
"Spesso, approssimativi. Non c’è più la sensibilità del piede, abbiamo perso un organo vitale. Io ho indossato le prime scarpette da calciatore a 15 anni[…] Erano nere, con i tacchetti. […]”.
Eleganti le scarpette nere, non trova?
"Uniche, irripetibili. Oggi i calciatori portano ai piedi pennarelli fosforescenti. Ma io dico: si può giocare al football con scarpe rosa o azzurre? Al limite, se c’è la nebbia…”
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Quando si è accorto di essere Causio?
"Ero piccolo, e mi facevano fare due partite a settimana contro i più grandi. Lì ho avuto il sospetto che qualcosa di particolare la possedevo”.
Cosa?
"La fantasia che ti insegna la strada. Oggi, se dei bambini si mettono a prendere a calci una palla all’aperto, le automobili li investono dopo due minuti. Esistono solo le scuole calcio a pagamento, chi non se le può permettere non va. Infatti, a calcio si gioca molto meno. […]”.
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Questi ragazzoni grandi e grossi, però, sono uno spettacolo.
"Hanno muscoli ma scarso talento, partono da un metro e 90 in su. Il risultato è uno sport ipertrofico, tutto fisico, non soltanto il calcio. Prendiamo il tennis: che noia queste partite con servizi a 200 all’ora e nessuno che si sposti dal fondo del campo. Io mi esaltavo guardando Panatta, Connors, Vilas”.
Forse lei non sta parlando solo di sport.
"Tutta la nostra vita è diventata una faccenda muscolare, se non sei potente e veloce non rendi, non ti considerano. Non c’è posto per la lentezza bella, quella della riflessione e della calma. Così viviamo peggio”.
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[…]
È una deriva inarrestabile?
"A volte mi chiedo se il calcio non sia impazzito, se non si stia buttando via”.
Si riferisce ai soldi degli arabi?
"Beh, se queste offerte le avessero fatte a me a fine carriera, mi sa che sarei andato a Riad invece che a Trieste. Ma finché mi sono divertito e basta, ai soldi non ho pensato. […]”.
Magari, quelli nella lista del Pallone d’oro.
"L’ho letta. E penso che tra i primi venti di quell’elenco, ben pochi potrebbero competere con noi, faticherebbero a esserci. […]”
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Causio, ma se adesso le diciamo Juve?
"Mi dite tutto. La mia vita meravigliosa. Arrivai a Villar Perosa che ero un bambino e mi misero in camera con Castano e Leoncini, il capitano e il vice: me la facevo sotto, però quei giganti mi hanno aiutato in tutto[…] Il mio maestro è stato Helmut Haller, uno dei campioni più formidabili che siano mai venuti in Italia. Crossava da fondo campo di collo pieno, destro o sinistro senza differenze. Alla fine degli allenamenti, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Tedescaccio, vieni qui e fammi vedere come fai”. Nessuno degli stranieri del nostro campionato, oggi, può essere paragonato ad Haller”.
[…] E come finì, invece?
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"Trapattoni non mi voleva più, preferiva Fanna e Marocchino. Così andai via e fu la mia fortuna. A Udine sono rinato perché non ero mai morto, nonostante le critiche di certa stampa. Oggi giocano fino a quarant’anni e io ero vecchio a trenta? Ma per favore… A Torino mi dissero arrivederci e grazie, loro fanno così da sempre e con tutti e hanno ragione, perché le persone passano mentre la Juve resta. Però, quando seppero che da Udine sarei andato all’Inter, mi telefonò Boniperti per chiedermi di tornare. Gli dissi “presidente, mi spiace, ma chi non mi vuole è ancora lì da voi”. Nove anni ho giocato, dopo avere lasciato Torino da dove non sarei andato via per niente al mondo”.
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Come giocatore dell’Udinese, lei vinse la Coppa al Bernabeu. La gioia più grande?
"Senza dubbio. Quando andai a Udine, la prima telefonata me la fece il vecio Bearzot. Mi disse: “Mona, sei nella mia terra e fai vedere a quelli di Torino cosa sai ancora fare. E poi io ti porto in Spagna, anche se il titolare sarà Bruno Conti”. Andò proprio così. Gli risposi che insieme a lui sarei arrivato in capo al mondo. E poi quella partita a scopone in aereo con Pertini, e la Coppa del mondo sul tavolino come una bottiglia di acqua minerale. Il presidente, ma vi rendete conto? Gli incontri che ho fatto io, neanche in dieci vite una in fila all’altra. Forse è proprio questa la ricchezza più grande”.
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Quanto conta la felicità, in campo?
"In campo e fuori, è tutto. Come ha detto mister Claudio Ranieri, resto finché mi diverto. E io mi sono divertito proprio tanto”.
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