Riccardo Torrescura per la Verità
NIVEA
Bisogna prendersi cura della propria pelle. Il problema è che ad alcuni è concesso, a molti altri purtroppo no, dunque nascono problemi e situazioni grottesche come quella che andiamo a raccontare. C' è perfino un tocco di amara ironia nel fatto che al centro dell' ultima, triste polemica sul razzismo ci sia un' azienda che si occupa del benessere della cute. Viene addirittura da soffocare una risata: siamo nell' ambito della farsa, dopo tutto.
Ecco i fatti. Nivea, celebre marchio di proprietà della compagnia tedesca Beiersdorf, martedì ha dovuto cancellare la sua ultima campagna pubblicitaria. Lo ha fatto in fretta e furia, appena due giorni dopo l' uscita dei primi spot. Vi è stata costretta a furor di popolo (o, meglio, di una parte di popolo), dopo essere stata bersagliata dall' accusa più infamante che ci sia: quella di razzismo. Tutta colpa della pubblicità del deodorante Invisible for black&white, appositamente studiato per non lasciare aloni sui vestiti (sia bianchi che neri, appunto).
L' annuncio commerciale diffuso sui social network era costituito dalla foto di una donna di spalle, con i lunghi capelli scuri che discendevano a cascata sulla schiena. Per quanto ne sappiamo, la signora in questione avrebbe potuto essere bianca, ispanica, color caffelatte o persino nera (peraltro, la pubblicità era rivolta soprattutto al mercato del Medio Oriente...). Ma ciò non importa. Il problema era lo slogan sotto l' immagine: «White is purity», che tradotto suona più o meno «bianco è purezza».
NIVEA 1
riferimento chiaro Ora, il riferimento al vestito bianco della fanciulla da non macchiare con lo spray era evidente, tanto che la pubblicità diceva anche: «Keep it clean, keep bright. Don' t let anything ruin it» (tienilo pulito, brillante, non lasciare che qualcosa lo rovini). Eppure si è scatenato l' inferno.
Immediatamente, sui profili social di Nivea hanno cominciato a fioccare i commenti. Più o meno all' unisono, gli internauti si stracciavano le vesti: la pubblicità era terribilmente razzista, dicevano, offensiva e discriminatoria. Sembrava quasi che la Nivea fosse diventata, all' improvviso, una sorta di succursale del Terzo Reich intenzionata a promuovere la purezza della razza bianca ariana.
Di sicuro, i vertici dell' azienda non avevano in mente cose del genere quando hanno lanciato i loro prodotti di «cura della pelle». Tuttavia hanno dovuto far sparire dalla Rete la pubblicità e, subito dopo, pubblicare un comunicato ufficiale di sentite scuse. «Siamo profondamente dispiaciuti», hanno scritto, «per tutte le persone che hanno trovato offensivo questo specifico post.
La diversità e le pari opportunità sono valori cruciali per Nivea». Il tono del comunicato, sostanzialmente, è quello di un autodafè. La compagnia tedesca ha dovuto inginocchiarsi al cospetto dalla polizia del pensiero antirazzista, ha ammesso le proprie colpe e ha recitato la litania gradita al nuovo totalitarismo politicamente corretto. Che gliene dovrebbe fregare delle «pari opportunità» e della «diversità» a un' azienda che fabbrica creme e deodoranti? Di questo psicodramma ci sarebbe da ridere, se non si trattasse di una tragedia immane. Vi rendete conto di cosa può succedere non appena si cita la parola «bianco»? Che il colore bianco sia associato alla purezza lo sanno anche i mattoni: non per nulla le spose vanno all' altare biancovestite. Il suprematismo ariano non c' entra un tubo.
adam lallana spot nivea
assurdità senza fine La verità è che siamo di fronte all' ennesima manifestazione di quello che Pascal Bruckner chiama «razzismo immaginario». Il bianco europeo è considerato per natura razzista, il suo ruolo designato è quello di oppressore delle minoranze (che siano donne, gay, neri, asiatici, ispanici, inuit...). Egli è il cattivo, lo sfruttatore, lo schiavista. Il suo compito, dunque, è di fare ammenda, di prostrarsi per compiacere il narcisismo perverso di queste vittime che non sono vittime. La Nivea viene trascinata davanti all' inquisizione antirazzista.
Ma nessuno, per dire, si sogna di indignarsi per la vicenda che ha come protagonista un ragazzino musulmano di nome Ziad Ahmed. Costui è stato accolto dalla prestigiosa università di Stanford perché nel test di ammissione ha risposto a una domanda sui suoi interessi scrivendo 100 volte «#BlackLivesMatter», cioè il nome del movimento di protesta dei neri americani. Ecco, questo sì che è un esempio di razzismo e discriminazione. Ma a nessuno frega niente, perché i bianchi - come ha scritto l' insigne studioso Walter Russell Mead sull' ultimo numero di Foreign Policy - si trovano a vivere in una società in cui la rivendicazione identitaria è concessa a tutti tranne che a loro. Prendetevi cura della vostra pelle, prima che vi costringano a levarvela di dosso in segno di pentimento.