Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica”
FRANCESCO MERLO
Caro Merlo, il calcio in Italia è in crisi come la nazione intera. Siamo decadenti e la colpa non è di Ventura, Mancini e Spalletti e nemmeno dei giocatori. La decadenza ci ha visti passare da Moro a Meloni, e chi più ne ha più ne metta.
Così come Scamacca e Retegui non sono Totti e Del Piero. La caduta del muro e la fine della Prima Repubblica hanno contribuito a diminuire il percorso da fare per arrivare in alto, in tutte le postazioni, in tutti gli ambiti. La qualità della classe dirigente è calata. I risultati li vediamo anche nel calcio, che un tempo era più importante della guerra per noi italiani. Da dove, per l'ennesima volta, dobbiamo ripartire?
Angelo Salvatore Carriero — Atella(PZ)
Risposta di Francesco Merlo
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Lei riproduce, in negativo, una vecchia patologia italiana, il bisogno malsano di surrogare la politica, di riempirne il vuoto con i gol e con le vittorie della Nazionale che, chiunque sia l'allenatore, misura la profondità delle nostre speranze.
Quando vinciamo, il calcio diventa il luogo incantato delle gerarchie rovesciate, il riscatto delle nostre incapacità in Europa, dei conti pubblici, del prodotto interno lordo. Quando invece veniamo battuti, il calcio porta via con sé l'intera nazione, il governo Meloni e l'isolamento in Europa, l'industria e l'artigianato, i premi Strega e Campiello, il cinema senza Oscar.
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Scatta la nostalgia dei padri della Patria Rivera e Riva, fondatori dell'Europa più di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. L'idea vincente dell'Italia non è Mario Draghi sul treno per Kiev ma quel famoso 4 a 3 con cui piegammo la Bundesbank, Hegel e Beethoven e che merita i libri di storia moto più del proclama di Armando Diaz. E invece i responsabili sono gli allenatori, i giocatori e i dirigenti. E c'è anche la fortuna perché come dice Oronzo Canà: "22 gambe hanno loro, 22 gambe abbiamo noi, il pallone è rotondo, la porta quadrata e l'arbitro è cornuto.
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