Anna Bandettini per “il Venerdì di Repubblica”
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Era ancora una ragazza quando nel 2017, in Cock, Cock, Who' s There? (C..zo, c..zo, chi c'è?), il più celebre dei suoi spettacoli tra cinema e live performance, mostrava una sua ricognizione sul comportamento sessuale maschile e sembrava ce l'avesse con quegli uomini, giovani e vecchi, ricchi e poveri, che, tra tentativi di seduzione e riprovevoli momenti di dominio, l'avvicinavano, lei, bella, giovane, bionda.
Oggi Samira Elagoz, filmmaker e performer, è in transizione verso la mascolinità, il viso con gli stessi capelli biondi lunghi e un accenno di baffi. Questo passaggio, lo racconta in Seek Bromance, una trans-opera, film e live, un video-diario intimo che è anche un addio alla identità femminile, ospite alla Biennale di Venezia, nel festival di teatro diretto da ricci/forte in programma a Venezia dal 24 giugno al 3 luglio dove passeranno tra gli altri artisti come Christiane Jatahy (Leone d'oro), Caden Manson, Milo Rau, Peeping Tom, Yana Ross.
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Finlandese di origini egiziane, residente tra Amsterdam e Berlino, 33 anni, Samira Elagoz (il nome d'arte è rimasto lo stesso, ma si fa chiamare anche Sam), il 1° luglio riceverà il Leone d'argento, «un riconoscimento eccezionale per le opere trans, come è la mia performance», dice da regista, e da protagonista insieme a Cade Moga, artista e modello trans.
Seek Bromance che si vedrà il 30 giugno - il titolo, ispirato da un brano di Avicii del 2010, indica una esperienza d'amicizia e solidarietà intima tra uomini (bro come brothers + romance, ndr) - ed è la storia incredibile dei rischi, i problemi, la solitudine, le gioie del cambio di identità e dell'amore tra Samira e Cade.
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Samira, perché mettere in scena la propria transizione?
«Non per educare le persone cis (cis è una persona la cui identità di genere corrisponde al sesso assegnato alla nascita, ndr), o per presentarci come esempi, ma per parlare di interazione tra mascolinità e femminilità, della difficoltà di scappare dagli stereotipi di questi generi e per condividere il percorso, la vita di un trans, complessa, travagliata, positiva, ammirevole, problematica e riconoscibile».
Come è la sua?
«È iniziata tardi, a 30 anni, e per di più durante la pandemia che l'ha resa piuttosto particolare. La transizione è un cambiamento in cui non sai che cosa stai costruendo, finché non guardi indietro. Non voglio generalizzare, ci sono tantissimi modi di farlo, per me la lezione è che nulla cambia eppure tutto è completamente diverso».
A cominciare dal corpo.
«Già. Io credo che la biologia non sia il destino di una persona, ma è vero che non si sfugge al fatto che siamo essenzialmente una miscela chimica. E se cambi la chimica, assumendo il testosterone, cambi la persona. L'altro aspetto è che noi siamo anche il riflesso di noi stessi negli occhi degli altri, e infatti una parte importante della transizione è il rapporto con la società, è la transizione sociale. Per me è stato difficile vedere che cosa produceva perché per la pandemia, durante il cambiamento, ero in isolamento. Vero è che per un transmascolino c'è l'esperienza maschile come confronto».
Anche i cattivi esempi di mascolinità che da donna avrà conosciuto?
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«A una mia amica, parlando della transizione, spiegavo che sarei potuto diventare l'uomo che lei avrebbe voluto esistesse. Ma giustamente mi ha replicato: "Non vorrai diventare un esempio?".
Io mi vedo più come transmascolino che come uomo. Prendendo il testosterone, ovvio che ho iniziato a capire di più gli uomini e che non sono gli ormoni a rendere la mascolinità tossica, ma la pressione sociale dello stereotipo maschile, quel clichè patetico e imbarazzante del maschile "tradizionale" aggressivo, misogino, da cui spesso non sono immuni nemmeno i transmascolini.
Diciamo che al suo meglio, la transmascolinità può immaginare il futuro della mascolinità. E nel peggiore dei casi, imita i suoi fallimenti. Io preferisco il termine "androgino" o "genere personalizzato". Avendo finalmente riconosciuto che ci sono più dei due generi canonici, trovo arcaico o inappropriato anche dire non-binario, dal momento che non esiste il binario. "Genere personalizzato" è appropriato: indica che uno è quello che sta progettando di essere».
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Non è un po' troppo fluido...?
«Mi sono reso conto con questa esperienza che l'assurda paura di non essere abbastanza uomo o abbastanza donna o abbastanza diverso, quell'incerta vulnerabilità è qualcosa che tutte le persone condividono. L'angoscia è angoscia, tanto che lo spettacolo evoca emozioni qualunque sia il tuo sesso. E comunque se fa sì che alcuni spettatori riconsiderino il modo in cui si relazionano al loro genere o ai trans, è un successo».
In scena c'è anche la sua storia d'amore con Cade Moga.
«Sì, da quando ci siamo incontrati, alla rottura. Cade è un'eccezionale artista trans, di origine brasiliana, residente a Los Angeles, che ho incontrato casualmente online. Per me è stato amico, collaboratore, amante, sorella, nemico...
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Abbiamo trascorso insieme solo 3 mesi nel 2020 ma è sembrata una vita, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. C'era la pandemia, e la sensazione che fossimo le uniche due persone sul pianeta, noi due in un deserto... che infatti è diventato protagonista del lavoro. Mostrare il nostro amore è la cosa più politica che potevo fare. I trans nei media sono descritti come solitari, isolati, con valori strani.
Qui no, e il pubblico vede due storie vere: nel film, io con il mio passato quando ero confuso, il mio cambiamento, io con Cade, e sul palco il mio presente».
Che cosa ricorda di Samira donna?
«È stato grandioso finché è durato. E resta il fatto che la mia femminilità ha plasmato chi sono oggi, quindi anche se non è più qualcosa che voglio essere, rimane una parte del mio curriculum vitae».
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