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Gino Castaldo per la Repubblica
Un giorno Brian Eno entrò agli Hansa Studios di Berlino dove lavorava con David Bowie. Disse: «Ho sentito il suono del futuro», e gli fece ascoltare I feel love, voce di Donna Summer, musica di Giorgio Moroder.
L’italiano di Ortisei è poi riuscito a conquistare il mondo della musica: talmente influente e carismatico da giustificare una bizzarria senza precedenti, ovvero un pezzo nel disco dei Daft Punk in cui parla, semplicemente, raccontando la sua storia. Oggi ha 76 anni, gira ancora il mondo facendo dj set seguiti da migliaia di ragazzi, ed è a Sanremo per presiedere la giuria di qualità.
Ha una vaga idea di quel che andrà a giudicare stasera al festival?
«Conoscevo solo alcuni degli artisti in gara, però ieri sera li ho ascoltati tutti, ho studiato i testi delle canzoni, ma non mi chieda di anticipare i giudizi, non sarebbe corretto».
Lei ha detto una volta che la cosa più importante nella musica è lavorare senza idee preconcette. È stato determinante per la sua carriera?
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«Fondamentale. Quando ho realizzato I feel love, non c’era nessuno che mi potesse dire cosa fare, non c’erano precedenti, mi ritrovai di fronte al primo Moog, un enorme sintetizzatore grande come un armadio, e allora non sapevo assolutamente come usarlo, quindi chiesi al tecnico: dammi un basso, e lui mi ha dato una nota ribattuta, un do, poi chiesi un sol, poi un si bemolle e così con tre note, anzi quattro è nato il pezzo, prima di allora ero abituato a scrivere al pianoforte ma lì non si poteva, ho dovuto inventare un metodo».
Considera “I feel love” una pietra miliare della sua storia?
«Sicuramente dal punto di vista dell’elettronica, ma avevo già avuto successo con Love to love you baby, che ha segnato la vera svolta nella mia carriera».
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È vera la storia di Eno e Bowie sul suono del futuro?
«Assolutamente sì, me l’ha raccontato Bowie in persona».
Come è stato lavorare con lui, cosa l’ha impressionata maggiormente?
«Sembrerà strano ma la cosa che mi è piaciuta di più è la sua professionalità. Gli avevo spedito la base di Cat people, il pezzo che dovevamo incidere per il film Il bacio della pantera di Paul Schrader, ci siamo incontrati a Montreux e lui mi disse: ok, vediamoci qui alle nove di mattina, per me era una cosa insolita. Siamo entrati nello studio dei Queen al casinò e una quarantina di minuti dopo avevamo già finito. Il regista diceva: non è possibile, dovete fare altri take. Ma lui era abituato così, e in realtà quello che avevamo fatto era perfetto».
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Sul lavoro è perfezionista?
«Dipende. Con Donna non lo sono mai stato, accettavo anche la sua libertà, lei era semplice, anche se la nota non era la migliore, a volte lasciavo stare perché il feeling era la cosa più importante».
Lei ha vinto 3 Oscar, qual è quello a cui tiene di più?
«Il primo, quello per Fuga di mezzanotte. Trent’anni fa a Hollywood le musiche da cinema le scrivevano gli autori d’impostazione classica, alla John Williams. Fu Alan Parker a offrirmi la possibilità. Gli era piaciuta I feel love, e mi chiese di fare la colonna sonora a patto che per una precisa scena gli scrivessi un pezzo come quello, e io realizzai Chase ».
Eppure se pensiamo a lei come autore di colonne sonore, la prima e più forte immagine è quella di “Flashdance”.
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«Vero, ma dipende dal fatto che in Flashdance è più forte l’intreccio tra musica, immagini e danza, e lì nel finale quando Jennifer Beals balla sulla mia musica l’abbinamento è davvero forte».
È vero che da giovane partecipò al Cantagiro?
«Oh sì, credo fosse il 1969, allora mi presentavo come George, capelli e baffi lunghissimi, avevo inciso il singolo Luky luky, ricordo che toccammo qualcosa come 56 città, senza un attimo di sosta, però era divertente e il pezzo non andò malissimo. In Spagna fu un successo».
Possiamo provare a immaginare tra le tante sue collaborazioni quella più facile e quella più difficoltosa?
«La più facile è stata quella con Donna: abbiamo lavorato insieme cinque anni, e siamo rimasti amici fino alla fine. Le piaceva il grattacielo in cui vivevo a Los Angeles e si comprò un appartamento nello stesso palazzo. Lei all’inizio era niente, sconosciuta, abbiamo fatto una bella strada insieme... Tra le più difficili ricordo quella con Freddie Mercury: era bravo in tutto e aveva una personalità molto forte. Non era mica facile fargli notare che magari una nota non era quella giusta...».
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Quanto c’è d’italiano nel suo modo di comporre?
«Niente dal punto di vista tecnologico. Ma nelle melodie sono totalmente italiano. A ben vedere anche un pezzo come Take my breath away (per Top Gun, ndr) poteva essere una canzone napoletana…».
Moroder ride e accenna a cantare il pezzo in stile napoletano. Accanto a lui c’è Karen Harding con cui ha inciso il nuovo singolo
Good for me. Toccherà a lei stasera il medley dei successi più celebri. «Oh sì, lei è bravissima. Volevo mandarle i miei vecchi pezzi per la performance di stasera. Mi ha detto: non serve, li so a memoria».
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