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Estratto dell'articolo di Roberta Valent per “il Venerdì di Repubblica”
«Non ce la farai mai. Non arriverai in Nba. Non sei abbastanza alto. Non sei abbastanza forte. Non sei abbastanza veloce». Sono le parole che Stephen Curry da giovane si è sentito ripetere all'infinito. […] Oggi Steph Curry, soprannominato Baby-Faced Assassin (l'assassino con il volto da bambino), è considerato da tutti uno dei giocatori più influenti della storia del basket. Uno specialista del tiro da tre punti capace di cambiare la pallacanestro moderna. […]
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La sua carriera, oggi, è celebrata in Stephen Curry: Underrated, il documentario scritto e diretto da Peter Nicks e prodotto da Ryan Coogler (Black Panther, Wakanda): mescolando vita privata, filmati d'archivio e interviste, racconta l'ascesa di Curry da giocatore underrated – sottovalutato – di un piccolo college di Division Ia star Nba, mostrandoci il suo lato più personale, l'impegno nelle cause sociali e la fede cristiana. […]
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Steph, perché ti chiamano Baby-Faced Assassin?
«È un mio alter ego. Rappresenta i due lati della mia personalità che tutti conoscono. Da un lato quello innocente, l'atteggiamento gentile che ho con tutti. E poi c'è il killer a sangue freddo che compare quando gioco, quando gli avversari cercano di intimidirmi. Mi conoscono anche come Chef Curry, da una canzone rap che mi ha dedicato Drake (ride)».
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Perché hai voluto Peter Nicks per raccontare la tua storia?
«[…]È stato lui a suggerirmi un punto di vista documentaristico per andare oltre la superficie. Ho pensato che sarebbe stato bello far vedere quanto i miei primi anni siano stati duri, pieni di dubbi, visto che nessuno aveva capito il mio potenziale, tranne pochi eletti: ho voluto mostrare il ruolo che quelle persone hanno avuto nella mia crescita, rivelando cose che nessuno sapeva di me».
Cosa c'è di nuovo in Underrated?
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«La particolarità del film non era tanto quella di seguire me e i Warriors durante la stagione vincente in Nba. Volevo fosse centrata in parallelo anche sugli anni della mia squadra di college, Davidson, e mostrare attraverso le immagini quanto quella comunità fosse unita. […]».
Ti sei laureato durante le riprese…
«Sì, in Sociologia, la scorsa primavera. Volevo far vedere la realtà della vita: i sacrifici e le ricompense date dal duro lavoro. […]».
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E poi c'è il tuo rapporto con la fede.
«[…] Sapere che c'è qualcosa di più grande mi aiuta a trovare uno scopo. Nelle cose che faccio tengo sempre a mente che io rappresento Dio, rappresento la mia famiglia, le persone che hanno avuto fiducia in me. La fede mi ricorda che siamo tutti su questa terra per un motivo: sollevarci l'un l'altro e diffondere positività e amore. Non esiste la perfezione, ma tutti abbiamo l'opportunità di avere un impatto sugli altri, non dimentichiamolo mai».
Film, basket, impegno sociale: c'è qualcosa che non fai?
«Non posso sciare né fare snowboard. È scritto nel mio contratto!».
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