Marco Giusti per Dagospia
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Esce per soli tre giorni, oggi domani e dopodomani, “Tutta la bellezza e il dolore” (“All the Beauty and the Bloodshed”), potente film-documentario premiato con il Leone d’Oro a Venezia e in gara agli Oscar nella categoria Miglior Documentario, diretto da Laura Poitras, già premiato con un Oscar e un Pulitzer per “Citizenfour”, e dedicato a Nan Goldin, celebre artista e militante, e alla sua guerra contro la famiglia Sackler, grande sponsor di musei e gallerie in America e in mezzo mondo, ma anche rea di aver inondato il mercato degli antidolorifici di un oppiode particolarmente nefasto, l’ossicodone. La vittoria del film a Venezia, pur voluta da una giuria presieduta da Julianne Moore che si narra fosse uscita in lacrime dalla proiezione, venne accolta nel gelo dai critici e dalla industry presente.
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Gelo e sgomento, perché ben pochi giornalisti italiani avevano puntato sul film, passato quasi inosservato alla proiezione delle 22 in Sala Darsena. Colpa loro, va detto, perché i critici americani avevano da subito segnalato il film fra i grandi favoriti, sia per lo status della Goldin sia per quello della Poitras che per la coraggiosa battaglia descritta nel documentario. Battaglia che non era solamente civile, ma che andava a toccare il cuore più nero e profondo del sistema dell’arte internazionale pur partendo da un caso solo apparentemente personale.
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La forza del film, che è però anche parte della sua debolezza strutturale, è nel doppio binario del cercare di raccontare il percorso privato di un’artista, per di più famosa come la Goldin, e contemporaneamente quello della sua lotta. Partiamo così con la giovinezza della Goldin, toccando da subito la triste storia della famiglia, della sorella Barbara, che passa da una struttura psichiatrica all’altra per poi buttarsi sotto un treno disperata sul modello Anna Karenina. Una fine che la Goldin vede come possibile anche per lei senza la fuga, inevitabile, dalla famiglia e dal paese oppressivo dove non avrebbe potuto liberarsi né artisticamente né sessualmente.
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Più divertente e glamour la descrizione della grande scena artistica e trasgressiva della New York anni ’70-‘80, in totale fluidità di genere, di scopate e di pere. Arriviamo così all’opera che cerca di descrivere quel mondo, “The Ballad of Sexual Dependency”, con le centinaia e centinaia di fotografie di fatti e strafatti, vivi-morti-semimorti-semivive di una città dominata dagli eccessi e dai desideri artistici e sessuali. Noi più vecchi sappiamo tutto o quasi. O fingiamo di sapere. Non sapevo, ad esempio, che la Goldin finisse per prostituirsi in un bordello per poter farsi di eroina.
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E’ a questo punto che dalla storia personale della Goldin, come di altre personalità della scena artistica newyorkese, entrano in scena l’Ossicodone e la famiglia Sackler. Perché senza una sanità pubblica, con tanti malati, depressi, reduci di guerre e di vita, il rimedio più rapido che le industrie farmaceutiche mettono in campo sono gli oppiodi ad azione rapida come l’ Ossicodone. Che risolvono lì per lì un problema, ma ne aprono un altro, peggiore.
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Come dice la stessa Goldin: “Mentre ero a Berlino, malata, mi bastarono due pillole di Ossicodone per sviluppare la dipendenza”. Una dipendenza che si allarga come l’Aids e come l’eroina e non ha conseguenze meno pericolose. Come abbiamo visto anche nella recente serie di Disney+ “Dopesick”. Il riscatto della Goldin è la costruzione di un gruppo militante, non a caso chiamato P.A.I.N, che prevede azioni disturbanti contro la famiglia che distribuisce il farmaco, cioè i potentissimi Sackler. Solo che i Sackler sono gli stessi che distribuiscono milioni di dollari in donazioni e sponsorizzazioni ai grandi musei americani, come il Metropoltan Museum di New York.
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E lì la cosa si complica, perché la Goldin attacca, appunto, il cuore del sistema sanitario americano, ma anche dell’arte. E grazie a queste manifestazioni, che fecero molto rumore, ma che il mondo istituzionale del tempo cercò di comprimere, vince clamorosamente una battaglia da David contro Golia che sarebbe sembrata persa in partenza. Altro che Fedez e Ferragni… La Poitras, cercando appunto di unire le due storie, dividendo la produzione con la stessa Goldin, non sempre riesce a bilanciare in un’unica struttura narrativa la vita e la battaglia dell’artista, ma offre al pubblico una serie di documenti importanti che ci aprono parecchio gli occhi sulla civiltà del benessere americano e su cosa possa nascondere il glamour dell’arte.
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Magari chi conosce meglio il percorso artistico della Goldin avrebbe voluto qualcosa di più, ma rimane un film importante. Magari non da premiare con un Leone d’Oro a Venezia. Ma capisco che la Moore, attrice sofisticata e militante, abbia amato il film. E lo abbia preferito al super-etero-irlandese “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh, premiato per la sceneggiatura e il protagonista, Colin Farrell, o al cannibal-sentimentale “Bones and All” di Luca Guadagnino, premiato per la regia, ma troppo estremo per il premio maggiore.
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Forse sarebbe stato preferibile “Saint Omer” di Alice Diop, altro film diretto da una donna, oltretutto afro-europea, su un tema importante. Detto questo il film della Poitras vincerà con grande probabilità anche l’Oscar per il miglior documentario. In sala.
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