Marco Giusti per Dagospia
guillermo del toro pinocchio
Un altro Pinocchio? Oddio, no. Non ne possiamo più di vedere Pinocchio al cinema. Il “Pinocchio” d’autore ideato e diretto da Guillermo Del Toro, diretto per le animazioni da Mark Gustafson, esperto di riprese a passo uno dai tempi di “Claymation Easter” (1992), “Le avventure di Mark Twain” (1985), “Fantastic Mr. Fox” (2009), che è uscito in questi giorni al cinema e dal 9 dicembre lo troverete su Netflix, è una versione ultradark del capolavoro di Collodi.
Legnosa, dura, ieri in sala i bambini scappavano, a differenza di quella così calda e avvolgente di Walt Disney, e molto diversa nella storia da quella tradizionale, anche se l’ossessione per la morte già era presente nel romanzo originale.
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Qui non solo Pinocchio è puro legno, e ha la bella voce da bambino di Gregory Mann, ma anche Geppetto, doppiato da David Bradley, pare intagliato nel legno, e da quando gli muore il figlio, Carlo, vittima collaterale di un bombardamento sbagliato durante la Prima Guerra Mondiale, diventa un vecchio falegname ubriacone.
La storia di Pinocchio, spostata dalla Toscana povera dell’800, così ben ricostruita nella versione di Matteo Garrone, nell’entroterra piemontese, vicino Alessandria, vent’anni dopo, in pieno fascismo, coi muri grondanti di scritte “Credere Obbedire Combattere”, durante la Seconda Guerra Mondiale.
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Il burattino è, alla Carmelo Bene, l’immagine stessa della libertà, senza fili e senza padroni, Lucignolo diventa qui il figlio del podestà del paese, il Grillo è Sebastian J. Cricket, doppiato da Ewan McGregor, il narratore alla Disney, ma anche uno scrittore, che vive dentro al legno con cui è stato costruito Pinocchio, la Fata Turchina, doppiata da Tilda Swinton, che si sdoppia in due personaggi quasi mitologici che regolano la vita e la morte, fa paura, come quella delle illustrazioni di Chiostri, la Volpe, doppiato meravigliosamente bene in tre lingue diverse da Christoph Waltz, si fonda con Mangiafuoco e diventa il Conte Volpe, omaggio al fascista Conte Volpi?, un impresario teatrale con trucco e taglio di capelli alla Donald Sutherland in “Novecento” di Bertolucci, che trascina Pinocchio nel suo Teatro dei burattini.
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Accanto a lui, al posto del Gatto muto della versione disneyana, c’è un babbuino, chiamato Spazzatura, anche lui quasi muto a parte dei rumori offerti da Cate Blanchett. Spazzatura e il Conte Volpe sono presi totalmente dal Gatto e la Volpe della versione disneyana, al primo è affidata l’animalità e al secondo i modi di fare dell’attore di vaudeville che si finge altoborghese.
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E Christoph Waltz è incredibile nel costruire il personaggio che riprende molto anche dal suo Hans Landa di “Inglorious Bastards”. Del Toro e il suo cosceneggiatore Patrick McHale semplificano molto il testo di Collodi.
L’esibizione di Pinocchio a teatro diventa qui un atto sovversivo contro il Duce, definito “Vostra escremenza” e massacrato con gag sulla merda, tanto che il Duce stesso chiederà subito di uccidere il burattino. Ma Pinocchio, come gli rivela la Fata Turchina, non può morire e ogni volta ritorna sulla terra.
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Il Paese dei Balocchi diventa qui un fortino di allenamento alla guerra per giovani fascisti, che sparano come i ragazzini di oggi con i proiettili pieni di colore, e dove il Podestà pensa di utilizzare il burattino che non muore mai come soldato ideale. Molto spazio viene invece dato alla Balena o Mostro, e alla fuga dalla pancia della Balena. Anche se le critiche internazionali sono state estremamente positive, francamente, mi sembra un Pinocchio riuscito a metà.
Il lato antifascista, che lo porta verso altri film di del Toro, come “Il labirinto di Pan”, è interessante, anche se molto violento. Come questo giocare continuamente sulla morte più che sulla vita. Troppi cimiteri per il povero Pinocchio.
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Anche se, certo, già nel romanzo di Collodi non erano pochi gli aspetti lugubri della storia e i conigli – becchini vengono proprio dall’edizione originale. Del Toro non coglie, come non la coglieva neppure la versione, davvero modesta, di Robert Zemeckis, mentre sia il Pinocchio di Garrone che quello di Comencini c’erano perfettamente entrati in sintonia, la realtà dell’Italia povero del secolo scorso, un 900 più vicino all’800.
Fa un’Italia pittoricamente perfetta da paesino ben conservato dove far muovere i personaggi, ma non credi mai che sia l’Italia. E non riesce a far esplodere a pieno la vitalità rivoluzionaria di Pinocchio burattino senza fili, che nella versione di Disney era quella del primo Topolino, e quella che più c’è entrata nel cuore e nella testa.
Costruisce un bellissimo Grillo, va detto, e una bellissima Volpe. Ma si esce dal film con immagini ancora più cupe di quelle del Pinocchio originale, unite a quelle di un’Italia fascista e repressiva che non ci aspettavamo. In sala.
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