Marco Giusti per Dagospia
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Merita il vostro rispetto e la vostra attenzione questo strampalato, ma a suo modo bello e commovente “Padre Pio” diretto da Abel Ferrara con Shia Labeouf, presentato a Venezia addirittura due anni fa e già lì piuttosto divisivo, che esce adesso in un’Italia che avrebbe bisogno di santi. Dobbiamo aspettare molto tempo prima di vedere la mano pietosa di Gesù Cristo poggiarsi sulla spalla e sul petto del Padre Pio di Shia Labeouf.
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Dobbiamo aspettare che si materializzi l’orrore e il dolore di un paese che sta uscendo da una guerra terribile e, nel 1920, si sta buttando nell’orrore del fascismo, con tanto di preti che benedicono i fucili e le pistole dei carabinieri chiamati dai padroni terrieri per sparare sui contadini socialisti che hanno vinto le elezioni e ribaltare così il risultato.
Anche se non è certo un film perfetto, e spesso rischia parecchio con l'inglese approssimativo di molti attori, il “Padre Pio” di Abel Ferrara offre una visione originale e inaspettata non tanto del personaggio, che vediamo lottare per tutto il film con il dolore che si porta dietro e che vede ovunque incarnandolo dentro di sé, ma del quale non sappiamo praticamente nulla, a parte che non è andato militare, quanto del mondo che lo circonda. San Giovanni Rotondo.
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Paese lontano e antico dove i reduci della Prima Guerra Mondiale si dividono presto tra chi sta coi padroni e chi sta con i lavoratori. E dove si arriva presto al momento fatale che vedrà i primi non sopportare una vera democrazia che la fine della Guerra aveva promesso e imporre con le armi il mantenimento delle differenze di classe e del potere dei proprietari terrieri.
Due anni dopo sarebbe arrivata la Marcia su Roma e con questa il fascismo, grande tema ricorrente in molti film italiani quest’anno a Venezia, come a indicare un pericolo che è, purtroppo, ancora attuale nel paese. Ferrara, assieme al suo sceneggiatore Maurizio Braucci, costruiscono quindi non un santino da prima serata di Rai Uno, per quello bastavano i vari Padre Pio televisivi di Sergio Castellitto e di Michele Placido, ma un film politico che osa affrontare l’avvento del fascismo e la nascita di un santo.
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Santo perché vede l’orrore e assume nel suo corpo tutto il dolore. Shia La Beouf sembra fare quasi un film a parte, un’operazione di autocostruzione sentita del personaggio toccato da Gesù e dalla fede. Piange, urla, ha visione, rinnega Satana, mentre, davvero curiosamente, un altro attore-amico di Ferrara, Willem Dafoe, in “The Kingdom – Exodus” di Lars Von Trier invoca Satanasso l’Anti-Cristo.
Confessa perfino Asia Argento nel momento più di culto di tutto il film (non lo dico con ironia), che gli si presenta dicendo “sono 168 giorni che non mi confesso” e rivela poi di desiderare il corpo di sua figlia e viene cacciata brutalmente da Padre Pio. “Get Out!”.
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Tutti, nel cinema italiano di Ferrara, parlano inglese, da Marco Leonardi a Salvatore Ruocco, da Brando Pacitto a Luca Lionello, da Cristina Chiriac a Ignazio Oliva. Funziona? Non funziona? Magari meglio fare come in “Pasolini” dove Dafoe parlava inglese e gli altri italiano. Ma non è questo che interessa a Braucci e Ferrara. E in italiano sarebbe sembrato assurdo il doppiaggio di Shia Labeouf. Il pubblico in sala quando l’ho visto a Venezia era piuttosto confuso, diviso tra i fan ferrariani e quelli che erano rimasti un po’ interdetti e imbarazzati. Su tutto dominava il grande blues di Blind Willie Johnson “Dark Was the Night”. Non mi chiedete perché. In sala.
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