Marco Giusti per Dagospia
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Scordatevi che “Civil War”, il film del momento in America, primo al box office con 26 milioni di dollari e un budget di 50, massima produzione della A24, scritto e diretto da Alex Garland, celebrato autore di “28 giorni dopo”, con una strepitosa Kirsten Dunst come la fotografa di guerra Lee, e i suoi non meno strepitosi compagni di viaggio Wagner Moura, il giornalista della Reuter Joel, Stephen Henderson come il veterano Sammy e la giovane Cailee Spaeny come Jessie, ci offra una qualche chiave politica per capire l’America di oggi.
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Volutamente, forse proprio per rispettare il punto di vista giornalistico dei suoi protagonisti, non si sbilancia, si astiene da qualsiasi commento possibile sullo scontro tra Biden-Trump, sul futuro dell’America. Ci mostra però un presidente dittatore impazzito, Nick Offerman, chiuso nella Casa Bianca, che offre al giornalista Joel un’ultima intervista, in un paese dilaniato da una guerra quasi senza logica. La California e il Texas, due stati davvero distanti politicamente, mettiamoci anche i non precisati “maoisti di Portland”, si sono uniti per far fuori il presidente.
Ma la follia della guerra domina qualsiasi situazione e rende quello che è in fondo un road-movie, un viaggio di 879 miglia da New York a Washington di quattro giornalisti, non molto dissimile dal viaggio di “The Last of Us”, una discesa agli inferi nella logica-non-logica di chi spara tanto per sparare e di chi risponde solo perché gli hanno sparato.
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Sappiamo che il Presidente americano è un dittatore impazzito che il vecchio Sammy paragona a altri dittatori, Mussolini, Ceausescu, Gheddafi, che hanno dato il peggio di sé, rivelandosi uomini mediocri, proprio nella caduta, sappiamo che dietro ogni mitra che incontrano può esserci un criminale che ti uccide senza logica, Jesse Plemons ruba la scena a tutti nella scena chiave del film, ma quanto più il film toglie informazioni e politica al racconto, più cresce il ritratto dei quattro giornalisti di guerra, tre veterani e una ragazzina con la Nikon in mano, che attraversano il paese. E la loro paura diventa la tua.
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E’ attraverso di loro che Garland, figlio di giornalisti di guerra, vuole raccontare la follia di tutte le guerre e costruisce la tensione di ogni scena. In un momento, inoltre, che ci sono così vicine, tra Ucraina e Medio Oriente. E’ allora che quelli che ci sembrerebbero difetti del film, la mancanza di informazione e un solido motivo per seguire il viaggio verso Washington, diventano quasi una forza del racconto, perché ne esaltano altri aspetti. Fosse solo la celebrazione dei tanti giornalisti di guerra che si sono immolati nelle nostre guerre più recenti, tra Gaza e Kyev. O la forza morale del fare informazione al di là di ogni logica politica.
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Ma è innegabile che il film, che ha una grande trovata iniziale, abbia un momento di stanca narrativa centrale per poi ricostruirsi con l’episodio delle fosse comuni e la follia di Jesse Plemons. Se Kirsten Dunst ci offre un ritratto tragico e sofferente della sua fotografa di guerra, Wagner Moura stempera la tragedia con una leggerezza guascona alla Errol Flynn, mentre scrivo penso al figlio di Errol Flynn, Sean, bellissimo ragazzo che lasciò il cinema per fared il fotografo di guerra, ucciso in Cambogia dagli Khmer rossi nel 1970, Stephen Henderson è come sempre sublime e Cailee Spaeney, che abbiamo visto protagonista in “Priscilla”, esce qui con grande forza.
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Per la A24, produttrice di horror e di stravaganze d’autore, come “Beau ha paura” di Ari Aster, questo è il suo maggior sforzo produttivo, è una sorta di battesimo di fuoco. Quanto ai maoisti di Portland non so bene che dirvi. Certo, si potrebbe fare uno spin-off, ma Garland ha detto che da ora in poi si dedicherà alla scrittura e non alla regia. In sala.
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