Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” - Estratti
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Il geometra Nazzareno Venanzi fu tra gli ultimi a incontrare il 29 novembre 1980 la signora Jeanette Bishop e la sua assistente Gabriella Guerin. «La mattina le feci vedere un portale, le piaceva per il casolare che stava ristrutturando — ricorda oggi Venanzi —. Abbiamo bevuto un aperitivo prima di pranzo, poi mi ha chiesto se volevo accompagnarle la sera in montagna, rifiutai perché ero impegnato. Dovevamo rivederci il giorno dopo a cena, anche con mia moglie. Quando ho saputo che non erano rientrate in albergo mi sono preoccupato e ho avvisato i carabinieri».
Così inizia il «giallo dei Monti Sibillini». Le due donne scompaiono dal borgo medievale di Sarnano, nel Maceratese. Le ricerche dei carabinieri sono intense, anche con cani ed elicotteri, ma per giorni nessuna traccia. Il 18 dicembre viene trovata la loro auto sepolta dalla neve vicino a una baita, solo 14 mesi dopo due cacciatori scoprono i cadaveri in un bosco tra il Lago di Fiastra e l’eremo di San Liberato. Più che altro sono un cumulo di ossa, i corpi sono stati dilaniati dai cinghiali e dalle intemperie.
JEANETTE BISHOP
L’inchiesta imbocca presto l’ipotesi del duplice omicidio, ma nonostante mille piste e supposizioni non porta a nulla. Adesso riparte grazie all’impulso del Comando provinciale dei carabinieri e della Procura di Macerata.
«Riesaminando il fascicolo, come facciamo per tutti i cold case, abbiamo notato degli aspetti meritevoli di approfondimenti» dice il colonnello Raffaele Ruocco. «Stiamo lavorando sperando di avere un risultato — conferma il procuratore Fabrizio Narbone —. Abbiamo pensato che questo poteva essere l’ultimo momento per cercare di arrivare alla verità, alla ricostruzione di quei fatti rimasti sospesi».
JEANETTE BISHOP E GABRIELLA GUERIN
Una decina i testi che sono stati convocati, «persone del paese tra cui cantonieri e cacciatori». Venanzi e la moglie Maria Francesca saranno riascoltati giovedì prossimo.
«Era una donna affascinante, un’ex modella dai modi gentili — aggiunge il geometra Venanzi —. Solo dopo la scomparsa ho saputo che era un personaggio noto in Inghilterra, l’ex moglie del banchiere Rothschild».
Per tutti divenne la «baronessa Rothschild», anche se dal primo marito, il finanziere Evelyn, aveva divorziato nel 1971. Quarantenne, si era risposata con l’imprenditore Stephen May, insieme avevano deciso di acquistare una villa a Sarnano, affidando i lavori di ristrutturazione proprio a Venanzi. Per questo Jeanette era in Italia, accompagnata da Gabriella, 39 anni, che era stata sua cuoca e governante, e adesso faceva da segretaria e interprete.
il cold case baronessa jeanette bishop
Le due donne vengono viste l’ultima volta alle 19 in piazza da un vicepretore onorario. Dopo prendono l’auto e si dirigono verso la montagna. Inizia a nevicare, difficile immaginare che a quell’ora abbiamo deciso di fare un’escursione. In più, accanto ai corpi, verranno recuperate una borsetta, una collanina e un orologio automatico fermo al 12 dicembre, due settimane dopo la scomparsa. Erano ancora vive in quella data?
Oppure, chi l’ha mosso?
L’inchiesta viene affidata al giovane giudice istruttore di Camerino, Alessandro Iacoboni. Le amicizie e l’ambiente frequentato da Jeanette aprono una serie di scenari e alimentano le cronache dei giornali italiani e inglesi. Si ipotizza un collegamento con una rapina miliardaria alla sede romana di Christie’s in piazza Navona, avvenuta il 30 novembre.
Due telegrammi anonimi uniscono i due casi e indicano un indirizzo romano (in cui aveva vissuto anche Pippo Calò, il cassiere della mafia). Emergerà poi anche la conoscenza tra la baronessa e Sergio Vaccari, un discusso antiquario assassinato a Londra nel 1982. Un filo che porta non solo alla rapina a Christie’s, ma anche alla morte di Roberto Calvi e alla figura del commerciante brasiliano di diamanti José Rodriguez May, fermato per l’omicidio delle due donne e poi prosciolto.
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Si sonda anche la pista del sequestro, i presunti legami con Paul Marcinkus, i punti in contatto con la sparizione di Emanuela Orlandi. Iacoboni verifica tutto, ma nel 1989 deve archiviare l’inchiesta, con una sentenza «aperta», a suo tempo innovativa. «La prova in positivo dell’assassinio non esiste — scrisse —, ma è altrettanto certo che è ben lontana dall’essere raggiunta la prova sicura, o soltanto probabile, della morte bianca per incidente».(...)