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    “IL COLLEZIONISTA? È UNA PERSONA UN PO’ MALATA” – VITA, OPERE E OSSESSIONI DI LUIGI CARLON, L’IMPRENDITORE CHE HA IMPERMEABILIZZATO L’EMPIRE STATE BUILDING, DIVENTATO MECENATE: DALLA SUA COLLEZIONE PRIVATA, CIRCA 380 OPERE, È NATA UNA GALLERIA A VERONA – “IN CASA LE OPERE ERANO APPESE UNA SOPRA L'ALTRA, APPOGGIATE DIETRO I DIVANI, ACCATASTATE. IL DIPINTO CHE MI È COSTATO DI PIÙ? IL SALUTO DELL'AMICO LONTANO DI DE CHIRICO. MI È RIMASTO SUL GOZZO INNO A DE CHIRICO DI WARHOL, COSTAVA TROPPO…”


     
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    Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera”

     

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    Avendo da una vita un museo in casa, un giorno il veronese Luigi Carlon decise che ne avrebbe fatto una casa museo aperta a tutti. Accadeva una quindicina d' anni fa, ormai prossimo al giro di boa dei 70.

     

    Ma solo lo scorso 15 febbraio, due mesi prima di lasciare la sua Index per tramutarsi da imprenditore in mecenate, la metamorfosi si è definitivamente compiuta, anche se il coronavirus lo ha subito costretto a chiudere le porte della pinacoteca, poi riaperte il 26 settembre e ora di nuovo sbarrate. «Palazzomaffei casa museo», si legge sulla targa all' ingresso, con il nome tutto attaccato per distinguerlo dal Palazzo Maffei. Un modo per avvisare il pubblico che l' edificio dalla facciata barocca in fondo alla piazza delle Erbe non è roba sua, lui s' è limitato ad acquistare all' asta dalle Generali solo il piano nobile, 1.300 metri quadrati.

     

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    Carlon, 81 anni, respinge il cronista: «Per carità, niente interviste! Venga, facciamo solo un giretto nelle 18 sale, così le mostro qualcosa». Una parola. Sono 380 opere d' arte, fra pitture e sculture. Dei grandi nomi del XX secolo non manca nessuno: René Magritte, Max Ernst, Marcel Duchamp, Georges Braque, Pablo Picasso, Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Gino Severini, Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Giorgio Morandi, Giovanni Boldini, Arturo Martini, Joan Miró, Vasilij Kandinskij, Lucio Fontana, Alberto Burri, Andy Warhol, Marino Marini.

     

    Collezionista tanto poliedrico quanto compulsivo, Carlon ha sempre avuto un occhio di riguardo anche per il passato della terra in cui è nato, e così ecco Altichiero, Liberale da Verona, Simone Brentana, Nicolò Giolfino, Alessandro Turchi, Felice Brusasorzi. Ed è qui, davanti alla Veduta dell' Adige nei pressi di San Giorgio in Braida dell' olandese Gaspar van Wittel, più noto come Gaspare Vanvitelli, che il collezionista comincia a raccontarsi, ruscellando come se uscisse dal Mosè fa scaturire l' acqua dalla roccia , la ciclopica tela dipinta da Gregorio Lazzarini intorno al 1690, che da sola occupa un' intera parete delle 72 di Palazzomaffei.

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    Perché non vuole finire sui giornali?

    «Per 42 anni mi sono dedicato all' impenetrabilità. Dipenderà da questo».

     

    Che intende dire?

    «La Index produce materiali impermeabilizzanti. Oggi esporta in oltre 100 Paesi. Ha protetto l' Empire State Building di New York, le Petronas Towers di Kuala Lumpur, l' hotel Burj Al Arab negli Emirati Arabi, la Place Vendôme di Parigi, il Ponte Normandia di Le Havre, l' aeroporto di Singapore, lo Zenith Stadium di San Pietroburgo e il Johannesburg Stadium in Sudafrica, il Parco della Musica a Roma, la stazione ferroviaria di Reggio Emilia progettata dall' architetto Santiago Calatrava, il Mart di Rovereto».

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    È ancora azionista?

    «No, ne sono uscito il 28 aprile, quando da amministratore delegato e presidente ho presentato l' ultimo bilancio».

     

    Per quale motivo l' ha venduta?

    «L' età. Non ho mai avuto né sabati né domeniche. Tornavo a casa per cena alle 20.30 e dalle 21 mi rimettevo sulle carte fino all' 1. Sono stato per anni il viaggiatore che totalizzava più miglia in volo con il club Freccia alata dell' Alitalia».

     

    Prima di fondare la Index, che faceva?

    «Mio padre morì quando avevo 20 anni e stavo frequentando la facoltà di Economia a Ca' Foscari. Dovetti lasciare l' università per mantenere la famiglia. Lavorai per sei anni alla Banca Cattolica del Veneto e mi laureai in Lingue studiando di sera. Però ero anche attore».

     

    La prendo come una confessione.

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    «Un' amica di Parigi, che aveva una catena di boutique, mi fece conoscere Mireille Darc. L' attrice, legata sentimentalmente ad Alain Delon, abitava a Neuilly-sur-Seine, nello stesso palazzo in cui vivevano Johnny Hallyday e la moglie Sylvie Vartan, che mi introdussero nel mondo dello spettacolo. Recitai pure in uno sceneggiato della Rai, La tredicesima buca . Interpretavo Robson, una spia che finiva ammazzata. E nel 2012 posai come modello per Prada su iD , la rivista di moda che si pubblica a Londra».

     

    Allora un po' di tempo libero lo aveva.

    «Mica tanto. Nel frattempo ero diventato socio della Nord Bitumi. Nel 1978 decisi di mettermi in proprio con la Index.

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    Il primo atto fu quello di cedere il 25 per cento del pacchetto azionario ai cinque principali dirigenti, trattenendo il 75 per me. Un modo per coinvolgerli. Cominciammo a studiare il polipropilene di Giulio Natta, il premio Nobel. Miscelandolo con il bitume distillato, ottenemmo un impermeabilizzante resistente alle temperature estreme, da meno 30 gradi a più 140. Il brevetto attirò l' interesse degli architetti Mario Botta e Ron Arad. Nel 1984 aprii uno stabilimento nell' Arkansas, vicino a Little Rock, e due anni dopo un altro a Ube, in Giappone».

     

    L' amore per la pittura quando nasce?

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    «Da ragazzo. In cantina conservo ancora i fascicoli dell' enciclopedia Capolavori nei secoli della Fratelli Fabbri editori. A 20 anni presi a frequentare Eugenio Degani, che mi presentò altri pittori e scultori veronesi di valore: Silvano Girardello, Giorgio Olivieri, Checco Arduini e Pino Castagna».

     

    Ma perché scelse proprio loro?

    «Ho un debole per gli artisti irregolari e poveri. Lei lo sa che in Italia ve ne sono circa 100.000? La gente conosce solo i più famosi, come Maurizio Cattelan. Ma la maggioranza degli altri fatica a sbarcare il lunario. Sono molto protettivo nei loro confronti. Ho sempre partecipato al concorso per i giovani di età inferiore ai 25 anni usciti dalle accademie d' arte, che la contessa Cristina Rizzardi organizzava nella sua villa di Negrar, dove visse lo scultore Miguel Berrocal. Ogni volta compravo le loro opere. Per aiutarli».

     

    Che cosa la attira degli esordienti?

    «Il terzo occhio, la loro capacità di vedere il futuro. A noi sarà dato di capirli solo fra 50 anni. Siamo appena riusciti a comprendere personalità come quella di Piero Manzoni, che morì nel 1963».

     

    Chi è un collezionista?

    «Una persona un po' malata, attratta dall' estetica, dal bello. Quello puro compra solo ciò che gli piace, ben conscio di cedere talvolta alle mode, dettate da galleristi e case d' asta».

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    L' arte è una forma d' investimento?

    «Sì, ma non l' ho mai intesa come tale».

     

    Il gallerista Ghelfi mi ha raccontato che Carlo Carrà gli disse: «Vedi, Giorgio, un dipinto di qualsiasi pittore, anche il più famoso, vale 30.000 lire, cornice compresa. Tutto quello che si riesce a guadagnare in più, è arte». Condivide?

    «In toto».

     

    Quando acquistò il primo dipinto?

    «Era il 1959, o forse il 1960: Moulin Rouge di Eugenio Degani. Il pittore veronese nel 1961 si trasferì a Parigi, dove entrò in contatto con Arman. Dalla Francia portava idee che a quel tempo non capivo. Sono nato nel rione di San Zeno, perciò sentivo di dover cominciare dai pittori di casa mia e arrivare ai fiamminghi solo dopo. Siamo sempre stati servi di Venezia, noi scaligeri, basti pensare alla vita di Paolo Caliari, detto Il Veronese, costretto a emigrare in laguna».

     

    Insomma, lei ha fatto il talent scout.

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    «Un pittore impressionista di Garda, Benito Tomezzoli, schivo fino ai limiti della misantropia, ritraeva gli scorci del suo paese. Il giorno che lo avvicinai mi rivelò: "Faccio questa roba per campare, ma la mia pittura è un' altra", e mi mostrò una tela astratta che sembrava uscita dalla tavolozza di Jackson Pollock».

     

    Quello che vedo esposto qui è tutto il suo patrimonio?

    «Ho ancora altre opere, però minori».

     

    Ma come faceva a tenersi in casa le 350 maggiori ora accolte nel museo?

    «Erano appese una sopra l' altra, appoggiate dietro i divani, accatastate».

     

    In famiglia approvano la sua fissazione per l' arte?

    «Sì, anche se mi sono preso qualche rimprovero per acquisti fatti di nascosto.

    Alla fine mia moglie Cristina e le nostre figlie Vanessa e Veronica hanno condiviso la scelta di possedere capolavori di cui non esistevano duplicati».

     

    Il dipinto che le è costato di più?

    «Non mi chieda quanto».

    Non l' ho fatto.

    « Il saluto dell' amico lontano di de Chirico. È del 1916, quando Giorgio e suo fratello Alberto andarono a vivere con la madre a Ferrara e furono rapiti dalle atmosfere rarefatte di quella città. La pittura metafisica nacque così».

     

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    Che investimento vi è dietro il museo?

    «Non glielo dico».

     

    La risposta del pubblico com' è?

    «A febbraio, nei primi tre giorni di apertura abbiamo avuto la bellezza di 3.300 visitatori, anche se va tenuto conto che avevo deciso di far entrare gratis per tutto il 2020 i veronesi di città e provincia. Poi è arrivato questo maledetto virus.

    Ma ipotizzare una media di 300-400 presenze al giorno, forse di più, non è irragionevole».

     

    E se i lockdown diventano la norma?

    «Aspetto che finiscano».

     

    C' è un' opera su cui aveva messo gli occhi ma che non si è potuto permettere?

    «Più d' una. Mi è rimasto sul gozzo Inno a de Chirico di Warhol, che avevo adocchiato in una galleria veneziana 15 anni fa. Costava troppo per me».

     

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    Chi è il pittore che apprezza di più?

    «Magritte. Qui è esposta La fenêtre ouverte . Il surrealismo fa pensare all' oltre».

     

    Non le procura tristezza l' assenza di questi capolavori dalle pareti di casa?

    «Sì, parecchia. In particolare mi spiace di non trovare più appesa in camera, sulla destra del letto, una piazza delle Erbe di Carlo Ferrari, detto il Ferrarin, pittore ottocentesco nato e morto a Verona. Ogni sera, al momento di coricarmi, guardavo il Palazzo Maffei sullo sfondo del quadro e mi dicevo: chissà, forse un giorno lo metterò lì... Ecco, sono molto felice che quel giorno sia arrivato».

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