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    IL COVID SI PRENDE ANCHE STEFANO D'ORAZIO, BATTERISTA DEI POOH (72 ANNI). ROBY FACCHINETTI: ''ERA RICOVERATO DA UNA SETTIMANA E PER RISPETTO NON NE AVEVAMO MAI PARLATO. OGGI POMERIGGIO, DOPO GIORNI DI PAURA, SEMBRAVA CHE LA SITUAZIONE STESSE MIGLIORANDO… POI, STASERA, LA TERRIBILE NOTIZIA. ABBIAMO PERSO UN FRATELLO, UN COMPAGNO DI VITA, IL TESTIMONE DI TANTI MOMENTI IMPORTANTI, MA SOPRATTUTTO…'' - L'INFANZIA A ROMA, L'INIZIO DELLA CARRIERA, GLI AMORI CON LENA BIOLCATI, EMANUELA FOLLIERO E POI CON LA MOGLIE TIZIANA GIARDONI, L'ABBANDONO DEI POOH E LA REUNION. IL SUO ULTIMO PEZZO ERA PROPRIO DEDICATO A BERGAMO TRAVOLTA DALLA PANDEMIA


     
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    1. È MORTO STEFANO D’ORAZIO, IL BATTERISTA DEI POOH: È STATO IL COVID

    Gennaro Marco Duello per www.fanpage.it

     

     

    È morto Stefano D'Orazio, storico batterista dei Pooh. Aveva 72 anni. Il musicista non aveva figli, ma aveva sposato il 12 settembre 2017, nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno, la compagna Tiziana Giardoni. Ha avuto lunghe storie d'amore con Lena Biolcati e con l'annunciatrice Emanuela Folliero. 

     

    stefano d orazio stefano d orazio

    Il mondo della musica è sotto shock. Una notizia che arriva improvvisa e che conferma il momento funesto per l'arte italiana, soltanto pochi giorni dopo la morte di Gigi Proietti. Dopo il primo tweet di Bobo Craxi, è arrivato anche Red Ronnie a confermare la notizia: "È volato nell'altra dimensione". Anche Giorgio Panariello, Loretta Goggi e Vincenzo Salemme in diretta a Tale e Quale Show hanno dato la notizia: "Sapere della sua scomparsa così è stato un trauma. Non sapevo che avesse una malattia pregressa. Il Covid ha colpito ancora". Su Facebook Roby Facchinetti ha commentato così la notizia:

     

    Due ore fa… era ricoverato da una settimana e per rispetto non ne avevamo mai parlato… oggi pomeriggio, dopo giorni di paura, sembrava che la situazione stesse migliorando… poi, stasera, la terribile notizia.

    Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa.

    Preghiamo per lui.

    Ciao Stefano, nostro amico per sempre…

    Roby, Red, Dodi, Riccardo

     

    L'8 settembre 1971 entra a far parte dei Pooh, sostituendo Valerio Negrini. Da quel momento comincia una grandissima avventura al fianco dei suoi compagni: Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian e Riccardo Fogli. Per i Pooh è stato batterista, voce e paroliere. Ha interpretato e scritto Tropico del Nord, La mia donna, il giorno prima, Se c'è un posto nel mio cuore. Quest'ultima canzone sarà anche la sigla del Processo del lunedì.

    stefano d orazio tiziana giardoni stefano d orazio tiziana giardoni

     

     

    Stefano D'Orazio lascia i Pooh nel settembre del 2009 dopo un tour di 38 date. L'addio (momentaneo) è dato ai fan con una lunga lettera: "Sono al capolinea". Rientra in formazione con la reunion del 2015 scrivendo altri tre testi: Tante storie fa, Le cose che vorrei e Ancora una canzone. D'Orazio ha lavorato anche ai musical: ha scritto i testi di Aladin (per cui Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian hanno composto le musiche), di Pinocchio, Cercasi Cenerentola e W Zorro e la versione italiana dei brani degli ABBA in Mamma Mia su richiesta della stessa band svedese. Nel 2010 è stato giudice nella terza edizione del programma Ti lascio una canzone. Ha pubblicato due libri autobiografici: "Confesso che ho stonato – Una vita da Pooh" e "Non mi sposerò mai – Come organizzare il matrimonio perfetto senza avere alcuna voglia di sposarsi" (sulle nozze con Tiziana Giardoni).

     

    L'ultimo successo prima della sua scomparsa, per una crudele coincidenza, è stato proprio un brano sul Covid e sulle tante vittime della pandemia a Bergamo. D'Orazio ha scritto il testo di "Rinascerò, Rinascerai", chiamato da Roby Facchinetti. In un'intervista a Fanpage.it, quest'ultimo aveva raccontato i dettagli del sodalizio che è stata purtroppo la loro ultima collaborazione: "Appena finita la composizione ho chiamato Stefano D'Orazio e, travolto dalla commozione, gli ho chiesto se avesse visto quell'immagine e gli ho chiesto di scrivere un testo".

     

    il matrimonio di stefano d orazio con tiziana giardoni e roby facchinetti il matrimonio di stefano d orazio con tiziana giardoni e roby facchinetti

     

     

     

     

    Da www.anteprima.news , sito a cura di Giorgio Dell'Arti

     

    L'intervista dei Pooh a Gian Antonio Stella, da ''Sette - Corriere della Sera'', gennaio 2016

     

    «La serata peggiore, tanti anni fa, fu in un paesone dell’Emilia», racconta Roby Facchinetti, «non ricordo neanche quale. Vivevamo un momento di “bassa”. Caso volle che fossero lì, la stessa sera, anche quelli della Formula3 che vivevano il loro momento d’oro. Fatto sta che da loro era pieno zeppo. Da noi c’erano dodici persone». «E otto erano fidanzatine nostre…», ammicca Riccardo Fogli. «Un’umiliazione. Loro migliaia di spettatori, noi dodici! Tornammo a casa bastonati. Muti. Col groppo in gola. Ci sentivamo finiti. Finiti».

     

    stefano d orazio. stefano d orazio.

    Mezzo secolo e trenta milioni di dischi dopo, i Pooh non solo sono ancora qua. Ma preparano un Gran Final col botto. Tutti e cinque, prima volta, insieme. I quattro “storici” (Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio, Red Canzian e “il Facchinetti”) più il figliol prodigo che oltre quattro decenni fa se ne andò, Riccardo Fogli. Prima un cd celebrativo. Poi uno show conclusivo. Doveva essere un concerto solo. Sono già quattro ma forse saranno cinque o sei perché, sei mesi prima di giugno hanno già venduto un diluvio di biglietti. Grandi e piccini? «Tu scherzi ma il miracolo è proprio questo: vengono le nonne, le figlie e le figlie delle figlie. Se non venissero ancora anche i ragazzini, ciao…». Ma suonare è ancora un divertimento? Dodi: «Mi farei tre ore di palco al giorno, anche gratis».

     

    REUNION DEI POOH SU RAIUNO REUNION DEI POOH SU RAIUNO

    Come mai questo “tutti insieme appassionatamente”? Stefano: «Ne parlavamo da un po’. Siccome i nostri programmi vanno di tre anni in tre anni, come ogni “ditta” seria…». Dodi: «Alla fine lo chiamai io: “Mi devi dire sì prima ancora che ti faccio una domanda: ci stai?”». «E come potevo dire no? Dissi: ci sarà da piangere, per noi e in platea». Occhi lucidi? «Beh, certo… Anche con un po’ di ansia. Io sono un artigiano, loro quattro artigiani che insieme hanno costruito una Ferrari. Io sono una Panda». «Abarth, però! Una Panda lusso!», lo interrompe Red. «Non voglio fare l’umile a tutti i costi, faccio da anni concerti in tutto il mondo e non mi tirano le scarpe. Però… Insomma, questi li conosco: passano giornate intere su un dettaglio. Il primo giorno, di nuovo con loro, ero emozionatissimo». Roby: «Sì, ma appena cominciato a cantare…». Red: «È come quando rivedi un fratello dopo anni: siamo tutti impegnati a farlo star bene».

     

    Tornando a quella sera sventurata… «Avevamo quasi deciso di scioglierci…». Risata: «E ci abbiamo messo cinquant’anni a deciderci!». Cinquant’anni di concerti, tournée, bidoni («Non hai idea di quante volte non ci pagavano») viaggi notturni per risparmiare i soldi dell’hotel, trionfi, birichinate, che aiutano a ricostruire un pezzo della storia d’Italia. A partire dal costume. E dalle “groupie girl”…

     

    «Quella fama lì fu molto romanzata. Dicevano che facevamo pubblico perché venivano folle di ragazzine», sorride Riccardo Fogli. Falso? «Mettiamola così: prima ma molto prima di conoscere le nostre compagne di oggi (scrivi: moooooolto prima!) tante ragazzine erano pazze di noi. Non erano le sole a venire ai concerti. Ma sì, erano tante».

     

    tiziana e stefano d orazio tiziana e stefano d orazio

    Roby: «Mettiamola così: ci fu una stagione in cui correvano dietro ai vari gruppi e siccome questi gruppi erano di ragazzi diciannovenni o ventenni, carini e simpatici… Insomma, erano anni di libertà. Improvvisa e totale libertà. Una rivoluzione». Di cui i Pooh furono i primi “utilizzatori finali”. Dodi: «Abbiamo vissuto il nostro successo giusto giusto sul crinale tra il prima e il dopo. Prima non te la davano neanche se andavi in giacca e cravatta a presentarti al padre con l’impegno a sposare la figlia in chiesa. Sei mesi dopo non dico che te la tiravan dietro perché sarei volgare ma… Insomma, le parole “fate l’amore, non fate la guerra” erano messe in pratica davvero. Ma era una cosa romantica. Innocente. Era un ribaltamento della società». Roby: «Hai presente Woodstock? Uguale. C’era proprio la voglia di far l’amore. Voglia di musica e di libertà».

     

    Sfidando mamma e papà. Un mondo di “piccole Katy”. Su quel testo che dava i brividi ai padri di ogni figlia quindicenne («Piccola Katy, stanotte hai bruciato / tutti i ricordi del tuo passato / tutte le bambole con cui dormivi…») i Pooh preferirono stare sul vago. Tanto che Sorrisi e Canzoni Tv si spinse a spiegare, rassicurante, che Roby e gli altri si erano ispirati «a una ragazzina conosciuta durante una tournée a Buenos Aires».

     

    Più lontana di così!

    stefano d orazio stefano d orazio

    In realtà, spiega Roby, «Piccola Katy era una poesia di Valerio Negrini, il nostro primo batterista ma più ancora il nostro poeta, che restò per settimane sul cruscotto del nostro pulmino. Una notte, dopo una festa di addio al celibato, provai a musicarla. La registrai con un Geloso. Il giorno dopo l’incidemmo. Di getto». Quindi l’Argentina non c’entra? «Ma va! Leggende. Ci siamo andati solo anni dopo. Hai idea di quante donne sulla sessantina arrivano e dicono “Ciao, sono piccola Katy?” Tantissime».

     

    Anche oggi? «Certo, anche oggi! Devo anche dire che a quei tempi (beata gioventù!) ce la siamo giocata con diverse: “Sai, Piccola Katy l’ho scritta per te”». E tutti a ridere: «Chissà a quante l’abbiamo detto…». «Tu lo dicevi a tutte, potevano pure chiamarsi Ugo…». «E non sai quante l’hanno raccontato poi alle sorelle, al marito, ai figli... “Sai, mia mamma era piccola Katy”».

     

    Un piccolo miracolo. Anche di longevità: «Mezzo secolo dopo, ce la chiedono ancora. Sempre». Anche se, a dispetto di chi la ricorda come un enorme successo, non fu neppure tale nelle vendite: «A memoria non salì mai sopra il settimo posto in hit parade. Mai. Va detto che allora i discografici non è che dichiarassero quante copie avevano stampato. Magari ne vendemmo mezzo milione ma non lo sapremo mai».

     

    Stefano: «Ci giocavano tutti, su ‘ste cose. Potevi esser sicuro solo della Rca, perché quelli rispondevano agli americani. Tutte le altre etichette vai a sapere quanto vendevano davvero…». Dodi: «Tante o poche fossero le copie, la canzone è rimasta nella testa di tutti i ragazzi e le ragazze di allora. Per passare poi alle figlie e alle nipoti. Anche se il senso di quelle parole non è più lo stesso…». Altra stagione. «Suonavamo al Piper e a metà degli Anni 60 era pieno di ragazzine scappate di casa per sfidare i genitori e venir lì, al Piper. Noi eravamo come loro, con uno o due anni di più».

     

    «Era la rivolta per il gusto della rivolta: magari andavi a dormire sotto la galleria del Pincio solo per non stare a casa, comodo comodo, nel letto», ricorda Stefano. «La mia era una famiglia borghese, mio papà era caposezione al distretto militare. Pochi mesi e cambiò tutto. Tutto. Prima il nonno insegnava al papà e il papà al figlio poi si è rovesciato il mondo: avete pure perso la guerra e volete insegnare a vivere a me?».

     

    Tiziana e Stefano D Orazio Tiziana e Stefano D Orazio

    Eppure quella serata emiliana fu fondamentale per “capire” tante cose. E non restò l’unica senza bagni di folla. «A un certo punto», racconta Stefano, «arrivò Maurizio Salvadori e ci disse che dovevamo fare i teatri. Capirai, dopo le balere! Dopo serate, come al Picchio rosso, con migliaia di spettatori! Sarà stato il ‘74… Dice: in Inghilterra fanno così. Noi, uguale. Pomeriggio e sera. Tutti i giorni. Certe volte la sera c’erano 315 persone, al pomeriggio magari undici, sedici… Ci avevano spiegato che al pomeriggio sarebbero venuti i giovani. Un giorno ne contammo sei. Giuro: sei. Ma suonavamo lo stesso. Chi paga va rispettato. Sempre. Anche fosse uno solo».

     

    «Ricordo un pomeriggio a Terni», ride Red Canzian, «Facevamo Parsifal. Avevo addosso un gran mantello. Se fai Parsifal il mantello ci vuole! Mi affaccio e s’alza l’unico presente in galleria: “‘A Dracula! ‘A vampiro! E vattene…” Da sprofondare. Eppure andammo avanti: the show must go on». Dodi: «La domanda che sorge spontanea è: eravate scemi? Il fatto è che con tutto l’armamentario di luci, strumenti, amplificatori, laser, fumi, non ci stavamo più sui palchi delle discoteche. Nei locali, dove dovevano togliere i tavolini magari già venduti per fare spazio alle nostre cose, faticavano a sopportarci».

     

    Undici anni in hit parade. Eppure, alla lunga, funzionò: «Arrivammo a fare 180 date l’anno. Centottanta! Proprio perché seminavamo bene». Sempre seminato, i Pooh. Coi primi soldi veri, quelli che altri avrebbero speso in Ferrari e Maserati, comprarono un autotreno: «All’inizio ne riempivamo un quarto e ci chiedevamo: come famo a riempirlo tutto? Adesso ne riempiamo otto o nove…», spiega Stefano. Dodi: «L’armamentario è diventato via via così costoso e ingombrante da portare in giro da costringerci a trascurare un po’ il resto del mondo per concentrarci sull’Italia». «Fatto sta che, semina oggi semina domani siamo arrivati nel 1982 a riempire lo stadio San Paolo di Napoli», rivendica Red.

     

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    «Abbiamo fatto il conto che, sommando quei due concerti al giorno», aggiunge Stefano, «siamo stati più tempo sul palco che a letto con le nostre compagne». Che pure non sono state rare. Certo è che, sommando le settimane, c’è chi ha calcolato che in mezzo secolo i Pooh siano rimasti nella hit parade più o meno undici anni. Possibile? «Corretto», risponde Red, «e sette anni primi». «Forse Mina, in classifica, qualche settimana in più», riflette Roby. «Ma negli anni buoni lei ha fatto meno album. Comunque ce la giochiamo». Dischi arrivati in vetta alle hit parade? «Tutti». Proprio tutti? «Dopo il primo, tutti. Magari una settimana, ma tutti. Sia i 45 giri sia i 33 e i cd. In totale, con le compilation, una cinquantina».

    Voglia di stupire e imitare i Beatles. La prima volta, celebrata da Novella col titolo “Quelli che hanno sconfitto Battisti” e un articolo che lodava Tanta voglia di lei perché priva della «solita cascata di urletti isterici», fu a settembre del ‘71.

     

    Roby: «Eravamo con Riccardo a casa mia, a Bergamo. Era l’ora fatidica: l’una del venerdì. Sette giorni prima eravamo ottavi. Ecco Lelio Luttazzi. Attacca con la decima: niente. La nona, niente. L’ottava, niente. E su su la settima, la sesta, la quinta, la quarta… “Porca vacca, siamo usciti!” Poi dice: “sull’Olimpo c’è…” Alla prima nota siamo schizzati: noi!!! Essere lì, in cima alla hit parade, allora, significava il successo. La fama». Dodi: «Restammo lì in cima per mesi. E quando Tanta voglia di lei cominciò a calare, iniziò a salire fino al primo posto Pensiero. Un milione e duecentomila copie con la prima, un milione con la seconda. Numeri oggi impensabili. Con tutto ciò che ne seguiva». Red: «Mi ricordo che tornavo a casa dai concerti, allora, con una valigetta ventiquattr’ore piena di banconote. Piena. Così pagavano le discoteche. In contanti. Comprai la casa ai miei con quelle valigette».

     

    POOH 1979 POOH 1979

    Vendite totali in mezzo secolo? Roby: «Trenta milioni di dischi. Di royalty pagate, diciamo. Ma in realtà, per anni, non si è mai saputo. Wikipedia dice cento…». Red: «Il falso era la metà. A Napoli trovavano interi capannoni pieni di dischi falsi nostri. Capannoni». Stefano: «E stampavano prima di noi! A un certo punto, per la disperazione, cominciammo a stampare in Germania. Ma servì a tener botta su un paio di dischi. Poi, non so come, riuscirono a procurarsi le matrici prima ancora che le spedissimo ai tedeschi…».

     

    Salta fuori una vecchia foto. Dodi e Riccardo hanno addosso pantaloni a pois a zampa d’elefante. Horror. «È che avevamo la necessità di essere guardati», spiega Facchinetti la cui figlia Alessandra ha lavorato per Miu Miu, Gucci e Valentino. Riccardo: «A parte che a Piombino io non sapevo neanche cosa fosse la moda, i nostri riferimenti erano l’Inghilterra dei Beatles e la voglia di stupire. Stupire sempre. In tutto. Adesso dici “peace & love” e ridono. Allora ci sentivamo sul serio portatori di un mondo nuovo. Anche nei vestiti».

     

     

    «Essere “beat”, allora, a Treviso, era faticosissimo: dove li trovavi gli stivaletti alla Beatles col tacco?», ricorda Red Canzian. «Io andai in piazza del Grano e comprai un paio di “polacchetti” che non c’entravano niente ma erano senza lacci. Brutti! Ma brutti! Poi vado dal calzolaio e gli dico: fammeli neri. “Perché?” “Perché sì”. Poi, non contento, dico: “Adesso mettici i tacchi alti”. “I tacchi? Se i xe novi!” “Ma io voglio i tacchi di cinque centimetri”. Il buon padre di famiglia arretra sconvolto: “Ti xe deventà cu’o?” “‘desso va de moda cussì!” “Ma ti caschi in avanti col tacco alto”.

     

    “Caminarò un po’ più indrio!”».

    «A Roma non era molto più facile. C’era il Piper market ma ogni cosa costava ‘n botto», sospira Stefano, «a via Sannio comprammo una pelliccia di visone con diecimila lire a testa». «Sarà stata una pelliccia di topo…», ride Roby. «No, no: era visone, ma tutto spelacchiato. Era una pelliccia da nonna ma col capello lungo mi sentivo molto figo».

    POOH ANNI SESSANTA POOH ANNI SESSANTA

    Il giorno dei ragazzi, un supplemento dell’epoca, scrisse che Mauro, uno dei fondatori, per farsi ricevere dal maestro Armando Sciascia, la prima volta, si fece anticipare da un biglietto da visita: «Conte Mauro Eduardo Zini Bertoli». Roby: «Infatti lo era. E noi così lo chiamavamo: conte». Gli altri no, sangue blu zero. «Tutti figli dell’Italia povera del dopoguerra».

     

    Roby: «Mio papà era operaio alla Dalmine ma con cinque figli (io sono il primo) arrotondava facendo il falegname». Red: «Il mio, dopo aver fatto di tutto compreso il minatore a Marcinelle (venne via in giugno, la tragedia successe in agosto), faceva il camionista. Era sempre via. Quando andava in bassa Italia, con le strade di allora, stava via due settimane. Una vita che gli ha spento tutti i sogni. Diceva sempre: “Varda che ghe xé più giorni che luganeghe”. Guarda che ci sono più giorni che salsicce. Insomma: risparmia! Vivevamo in una villa del ‘700, in pessime condizioni, che era stata data alle famiglie più povere del paese. Due stanze, duemila lire al mese. Ricordo ancora il giorno che papà tornò da un viaggio, affittò una Fiat 1400 per portarci al mare a Jesolo. Anche noi in vacanza!».

     

    Dodi: «Il mio era un rappresentante di olio. Ma tutti in famiglia, siamo di Bologna, eravamo musicisti. Papà suonava il violino, mio zio la chitarra, il bisnonno il violòn, una specie di violoncello coi tasti. A quattordici anni ero già coi complessi di ragazzi più vecchi». «Mio padre, dopo essere tornato dalla guerra e aver fatto il raccogli-macerie, l’imbianchino e l’attacchino, trovò lavoro alla Piaggio, a Pontedera. Come manovale», ricorda Riccardo, «Era così felice di questo suo status che certe sere in cui sognava ad alta voce diceva: “Dio, fa che anche ‘l mi’ figliolo diventi un metalmeccanico!” Difatti firmò la richiesta di assumermi quando avevo 10 anni. Mi prenotò il posto! A 14 e un mese ero alla Piaggio. Solo che proprio allora uscì la legge che per lavorare ce ne volevano quindici. Fu una fortuna perché imparai a fare l’elettricista. Mi piaceva tantissimo. A 15 anni e un mese tornai in Piaggio. Ci ho lavorato due anni. Difatti i miei primi contributi li ho pagati allora. A novembre del ’62. E nel 2007 mi è scattata la pensione. Ora è di 670 euro».

     

    Quarantacinque anni di contributi. «Senza le marchette Enpals non potevi lavorare. E il nostro commercialista, grazie a Dio, ci stava attento. Sennò oggi…».

     

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    Cultura popolare. Insomma, tutti figli del dopoguerra. Che si trovarono di colpo benedetti dal successo. «La svolta vera fu nel ‘71, con Tanta voglia di lei. Era difficile allora parlare di tradimento. Valerio Negrini, quello che oggi più ci manca, ci riuscì. Come era riuscito prima a parlare del terrorismo in Alto Adige in Brennero ‘66». Censurata dalla Rai perché dava da pensare… «Esatto. Il filo conduttore tra questi argomenti diversi, le bombe altoatesine, le ragazzine in fuga, il tradimento, era Valerio».

     

    Stefano: «Non erano itinerari da hit parade. La fortuna è che abbiam cominciato prestissimo ad autoprodurci e a rompere lo schemino delle case discografiche. Quello che diceva che dopo un successo dovevi fare una canzone che somigliasse il più possibile alla precedente. Per fare il contrario dovremo metterci in proprio. Parlando di temi. Problemi. Cronaca. Gitani, pellirosse, periferie, Incas… Mica tutti sapevano chi erano gli Incas. Ecco: noi crediamo di aver fatto una vera cultura popolare parlando di cose importanti a chi non le conosceva piuttosto che a chi le conosceva già e magari meglio di come si possa dire in una canzone».

     

    C’è un vecchio ritaglio di Settimana tv del 1972: «Siamo noi gli eredi di Verdi e Puccini». «Quella è una sciocchezza che mai avremmo osato dire e ci fa fare la figura dei pirla, ma è vero che abbiamo provato a fare musica popolare creando uno stile nostro», salta su Roby. «Può piacere o non piacere, ma è nostro. Uno ascolta e dice: questi sono i Pooh. Ti piace? Non ti piace? Siamo noi». Non piacevano ad esempio, ricorda Riccardo, a un contadino che aveva la stalla vicino a un rustico dove il gruppo provava sotto Bergamo alta: «Arrivava con il forcone smoccolando in bergamasco. Roby faceva da interprete. Diceva che con la musica gli facevamo anda’ a male ‘l latte alle mucche…». C’è chi ha scritto: «I Pooh sono la via di mezzo tra la Premiata Forneria Marconi e i Cugini di campagna». «Mica male!», ride Red.

     

    «Meravigliosa», ammicca Stefano.

    Roccaforti? Roby: «Mah… Abbiamo venduto un po’ dappertutto. Un amico dice di aver sentito una ragazza di colore canticchiare per strada a New York Chi fermerà la musica. Non è fantastico?». Red: «C’è un gruppo di ragazzi neri guidato da Lesley Dubois che ci segue ogni volta che andiamo in America. Son capaci di partire da New York per venirci a vedere in Canada. Lesley ha imparato l’italiano con le nostre canzoni». Dodi: «Diciamo che ci conoscono un po’ dappertutto. Europa, America, Giappone, Australia… E il sud America, ovvio».

     

    Stefano: «Quando ci siamo andati, la prima volta, non sapevamo neanche che con Tantos deseos de ti, la versione spagnola di Tanta voglia di te eravamo primi nelle classifiche. Giuro. Arrivammo a Caracas convinti di fare un giro per promuovere il disco. Un paio di interviste televisive e via. Manco gli strumenti avevamo dietro. E trovammo una folla in delirio. Si aspettavano concerti. Noi non sapevamo manco il testo in spagnolo perché avevamo registrato con l’interprete attaccato che suggeriva: “Cuanto siento defraudarte / y me puedes despreciar”…» Roby: «Eravamo basiti. Un giorno in taxi casualmente sentiamo il giornale radio. Si parla di Manila, di Nixon, di Beirut… Poi dice: “Los Pooh declaran que nunca irán a Sanremo”, “i Pooh dichiarano che non andranno mai a Sanremo”. Dico: tra Nixon e Beirut!». Stefano: «Aoh, nun se so’ ppiù ripresi da ‘sta notizia!».

     

    In realtà poi a Sanremo sarebbero andati. Con Uomini soli, nel 1990. Stefano: «Mettemmo come condizione che suonassero e cantassero tutti dal vivo. Niente playback! Troppo comodo! Vincemmo». Riappariranno, come super ospiti, al prossimo. «Non aveva senso farlo in gara…». Dodi: «Per tornare al tema dei “nostri” serbatoi di fans, c’è infine l’est europeo dove siamo stati tra i primi ad andare, perfino prima dell’amico Fogli». Riccardo: «Voi però non siete arrivati anche nella Kamchatka…». Red: «Ma va là! Solo nel Risiko esiste la Kamchatka!». «Esiste, esiste… Io ci ho cantato».

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    L’intervento di “Santa Nicoletta”. Magari laggiù, in fondo in fondo dopo la Siberia e sotto lo stretto di Bering, non ci sono gruppi di sosia che rifanno i Pooh uguali identici, ma in giro ce ne sono un mucchio. Si pettinano allo stesso modo, mettono gli stessi vestiti, cantano imitando gli stessi tic… Dodi: «E lo fanno di mestiere, eh? Ci vivono. Fanno più concerti di noi. Bravissimi. Una sera uno mi spiegò nei dettagli come io disponessi sul palco il set di chitarre uguali alle mie. Dico: “Grazie, lo so”. “No, adesso te lo spiego”». Stefano: «Dieci anni fa ne radunammo a Ponte di Legno 52. Non so se mi spiego: cinquantadue gruppi di cover! Con nomi tratti dai nostri dischi. Ognuno di noi aveva i suoi doppioni…».

     

    Vinsero i “Palasport” di Taranto, che ricordano sul loro sito di essere «gli unici a portare in concerto gli stessi strumenti dei Pooh, l’unica “copia conforme all’originale” del pianoforte a coda bianco portato dai Pooh dall ‘86 ad oggi, gli storici “Tom a fusto rovesciato” utilizzati da sempre da Stefano D’Orazio, il basso Laurus rosso appartenuto a Red Canzian…». Siano benedetti, dice Stefano: «Negli anni in cui ci siamo fermati hanno lavorato tantissimo». E Red: «Ho prodotto perfino un album di venticinque di questi gruppi! Sono loro a tener viva la nostra storia». Roby: «Ancor più dopo che ci saremo sciolti».

     

    Proprio sicuri che quelli di giugno saranno gli ultimi concerti? Red: «È quello che ha detto Riccardo: “E mi avete chiamato dopo 43 anni per chiudere?”». Pentito, quella volta, d’esser venuto via? «Sempre. Roby, anche se siamo quasi coetanei, era praticamente mio fratello maggiore. Lasciare amici così è stata una follia pura. E una follia pura che mi abbiano lasciato andare. Hanno avuto la fortuna, dopo mille provini, di trovare Red. Sennò…». Colpa della sbandata di Fogli per Patty Pravo. Red: «Porto tutti i giorni un cero a Santa Nicoletta Strambelli… Anche i miei familiari lo fanno». Stefano: «Era così stravolto da questo amore per Nicoletta, in quei mesi, che finivamo all’una a Sottomarina e lui partiva per andare da lei a Roma con un concerto la sera dopo a Firenze…». Roby: «Che storia, però! Red benedice Nicoletta, Riccardo la maledice». Riccardo: «Non esageriamo… Lui ha acceso i ceri, ma io non li ho mai spenti. Con Nicoletta era una storia che meritava d’essere vissuta. È la vita… Sennò col cavolo che vedevo il Kamchatka!»

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    3. D’ORAZIO: «IO, LA BENEFICENZA E IL SOGNO DI VERDI»

    Andrea Pedrinelli, Avvenire 08/01/2011

     

    «Il tentativo di dedicarmi solo a me l’ho fatto: dopo l’addio ai Pooh sono stato un mese in Sri Lanka. Là ho visitato la scuola costruita grazie ad una delle iniziative della band, con una cifra piccola per noi occidentali. Allora mi è venuta no­stalgia di un potere che la po­polarità consente: dare qualcosa a chi soffre, sensibilizzare. Sa, non ho mai avuto la necessità del palco: anche cantare i miei testi con i Pooh era sempre su spinta degli altri. Così ho rifiutato oneman show e reality e sono ripartito dietro le quinte. Provando, nel mio piccolo, a dare qualcosa agli altri».

     

    Stefano D’Orazio racconta così la sua ’svolta’ dopo 38 anni di Pooh: una ’svolta’ che ora lo vede, certo, artefice di musical ( Aladin) o autore di loro versioni italiane ( Mamma mia! ) ma soprattutto lo fotografa impegnato in una scuola, nell’incontrare i giovani, nell’aiutare iniziative di solidarietà. «Mi sentivo inadeguato a sessant’anni su un palco: queste cose, invece, sono una necessità interiore».

     

    D’Orazio, c’è però un fatto da cui partire. Dopo i Pooh lei è stato giurato di «Ti lascio una canzone»: e non sembrava l’abbrivio di una sua ’svolta’ lontana dai meccanismi peg­giori dello spettacolo: anzi…

    Ho accettato vedendo nei provini bambini che si divertivano. Però poi ho visto che strada facendo ci credono, le mamme diventano agenti… E infatti ho smesso. La popolarità la conosco: fa staccare i piedi da terra. Se sei fragile è pericolosissima.

     

    Per questo ha varato il progetto «Fabbrica della musica»?

    stefano d orazio in dolce compagnia stefano d orazio in dolce compagnia

    Assolutamente sì. Io appena posso giro le scuole, ma questo è il mio sogno: una scuola di musica ad Ostia, ristrutturando a mie spese un teatro, con anche corsi appositi per portatori di handicap. Lì, da direttore artistico, incontro periodicamente gli allievi. Per dirgli che l’essere famoso cui spingono i media non è nulla senza basi. Devono imparare un’arte, certo, ma anche i loro diritti, le leggi del settore…’.

     

    I giovani li aiuta anche sul piano pratico? Voglio dire, con ’Aladin’ ha dato loro opportunità?

    Per farlo ho lottato contro i di­stributori degli spettacoli, che volevano solo ’nomi’. E Jasmine è una ragazza: loro mi volevano imporre gente dei reality, attrici di cinema, 40enni appariscenti… Anche il corpo di ballo è tutto di giovani. Ho accettato solo due impo­sizioni: le maschere disneyane e il titolo. Il mio era Aladino, in italiano, semplicemente.

     

    Ai musical vanno le famiglie: responsabilità?

    Tantissime. Purtroppo siamo abituati alla ’realtà’ becera della tv. Perciò dai testi via ogni volgarità, anche la più innocente. Pure in Mamma mia! . Sa cosa volevo mettere in Aladin? I sogni dei miei nonni: salute, purezza, non credersi immortali. Dei valori.

     

    Il D’Orazio artista sarà sempre su questi binari?

    Vorrei. Ho in mente altre fa­vole e un testo su tre donne di generazione diversa ma itinerari simili. Poi c’è la Traviata ibrida con Marconi. Se il musical chiama 240mila persone, cito La bella e la bestia , perché non usarne gli schemi anche per dimostrare, con un testo di oggi, quanto è bello Verdi?

     

    Il D’Orazio della ’svolta’ invece che progetti ha?

    C’è un libro cui tengo: Sassi tra le nuvole del dottor Marco Zappa, mio amico d’infanzia, testimonial dell’Associazione Lombarda contro l’Idrocefalo e la Spina Bifida. Voglio aiutarlo a raccogliere col libro fondi per curare queste malattie. Poi vorrei mettere all’asta i miei… elefanti. Pachidermi di ogni materiale e tipo da vendere per aiutare associazioni o iniziative benefiche. Devo solo trovare chi me li cataloghi…

    Stefano D Orazio e Tiziana Stefano D Orazio e Tiziana i pooh a sanremo i pooh a sanremo POOH 8 POOH 8

     

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