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    IL DIABOLIK VESTE LA MOLE - IL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA DI TORINO E LA MOSTRA CHE CELEBRA L’USCITA DEL FILM DEI MANETTI BROS – LUCA BEATRICE E IL MISTERO DI DAVID "ZEB" FEDI, PITTORE LIVORNESE, SPARITO IL 29 MAGGIO 2008 VICINO A CECINA. NESSUNO NE HA PIÙ SAPUTO NULLA E CIÒ CHE COLPISCE È DIETRO QUESTO MISTERO CI SIA L’IMMAGINE DI DIABOLIK, DEI SUOI OCCHI, DELLE SUE MASCHERE, RIPETUTA E ANCORA RIPETUTA. MAGARI È UN CASO O FORSE NO...


     
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    Luca Beatrice – testo catalogo della mostra Diabolik alla Mole

     

     

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    “Eva. L’industriale Paolo Resler ha comperato una collezione di monete d’oro antiche, valutata un miliardo”.

     

    E’ una mattina tranquilla a casa Kant (mattina perché nel 1974 i giornali si leggevano prima di mezzogiorno) finché l’attenzione di Diabolik non cade su una notizia di quelle che accendono la fantasia. Dai dettagli riportati nella tavola disegnata da Sergio Zaniboni e Saverio Micheloni il living  è spazioso, arredato con gusto moderno, essenziale ma non rigidamente minimalista, con una particolare ricerca verso il design italiano.

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    Sulla base che separa le sedute del divano è appoggiata la Lampada Taccia di Achille e Pier Giacomo Castiglioni prodotta da Flos a partire dal 1962, oggetto super-iconico nella miglior stagione del design radicale che infatti assurge all’attenzione internazionale nella mostra Italy: the New Domestic Landscape allestita al MoMA New York nel 1972.

     

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    Non è invece ancora tempo dei grandi schermi televisivi, i film si vedevano al cinema e non riusciamo a immaginare Diabolik ed Eva troppe sere in casa. La tv non era, come oggi, parte integrante dell’arredo hi-tech, sottile ed elegante, però è un articolo in plastica colorata, il materiale del futuro, trasportabile e tecnologico. I designer capiscono il successo di radio, tv, telefoni: Marco Zanuso e Richard Sapper collaborano con Brionvega per Algol, sulle linee di un cagnolino da compagnia, mentre Rodolfo Bonetto disegna Linea 1 nel 1969 per Autovox, ispirato ai monitor dei laboratori della Nasa di Houston intravisti in tv o sui giornali in quel periodo dell’allunaggio.

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    Al tempo si sarebbe potuto affermare che in una bella casa si sente la mano di una donna. La passione per il design, dunque, la attribuiamo a Eva che dissemina nelle storie arredi come la Lounge Chair and Ottoman di Charles e Ray Eames, la Chaise Longue Lc4 di Le Corbusier, tavolo e sedie Tulip di Eero Saarinen, e mette attenzione particolare nell’illuminotecnica, sapendo che la luce è fondamentale nelle case contemporanee.

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    Particolare non da poco di questo “frame” che compare tra le immagini guida della mostra Living in a Box: design and comics ordinata al Vitra Design Museum di Weil am Rhein nel 2019: sulle pareti sono tratteggiati almeno tre quadri. L’arte, insieme al design, rappresenta nei primi anni ’60 la possibilità di quell’upgrade sociale e culturale della piccola e media borghesia per accedere a un mondo che prima era appannaggio solo di ristrette classi. Seppur criminali, Diabolik ed Eva sono esponenti di una nuova borghesia agiata che ama le cose belle.

     

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    Negli anni che segnano l’esordio di Diabolik e fino alla versione cinematografica di Mario Bava del 1968, il panorama artistico in Italia è molto vivace.  La Pop Art, con spunti derivati più dalla Londra di Richard Hamilton che dalla New York di Andy Warhol, si sovrappone alle sperimentazioni delle neoavanguardie -cinetica, op art, arte programmata e concreta- concentrate a Milano, dove è attivo Lucio Fontana e invece se ne è andato prematuramente Piero Manzoni. Il clima sotto la Madunina è effervescente, tra luci al neon, invasione degli spot pubblicitari, l’editoria che cresce a dismisura come la racconta Luciano Bianciardi, la Brera dei new bohemien che vanno al Bar Jamaica a “tirar mattina”, per dirla alla Umberto Simonetta.

     

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    A Roma invece si concentrano i migliori pittori pop che si nutrono di cultura popolare e mass media come gli americani, anche se in Italia non c’è un “caso” paragonabile a Roy Lichtenstein, l’artista che preleva letteralmente vignette dai fumetti di avventura, guerra, amore, non tocca niente però lo riproduce “a mano” imitando la tecnica del retino tipografico su grandi dimensioni. Risultato, immagini di impatto e parole decontestualizzate che non si legano più al senso narrativo e alla storia e invece guardano alle nuove tecniche di comunicazione e di lettura del testo come la semiologia.

     

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    Dici Pop e pensi immediatamente al colore e alle figure, eppure ai tempi della Scuola di piazza del Popolo, quando si ritrovavano al Caffè Rosati, Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli vestivano sempre e solo di nero tant’è che il critico Maurizio Calvesi ironicamente li definiva come dei beccamorti. Tutti i colori trovano la sintesi migliore proprio qui, nel nero come filosofia di vita.

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    Tra quelli, e sono in diversi, che citano i fumetti, il più continuo è Mimmo Rotella, pop ma nella versione critica che gli deriva dall’esperienza francese con il Nouveau Realisme di Pierre Restany. Nota è la tecnica del decollage, far pittura “strappando” i manifesti dei film, delle pubblicità, delle campagne elettorali, ovunque vi sia un’immagine che cattura lui la devasta creandone un altro da sé persino più efficace, anche quando affronta icone come Marilyn o Sophia Loren. Prima o poi doveva capitagli Diabolik e infatti è successo…

     

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    Alla ricerca di omaggi della nostra arte all’uomo col pugnale e Eva ho rintracciato opere relativamente recenti, a testimonianza del fatto che il fenomeno dura da tanto e non accenna a smettere: il doppio ritratto luminoso di Marco Lodola, negli anni ’80 esponente del Nuovo Futurismo e attento sempre a cogliere l’aura intorno ai personaggi che più lo meritano, una serie limitata di polaroid ottenute a partire dalle copertine del fumetto, scomposte e rielaborate con lo stile tipico di Maurizio Galimberti, un dipinto psichedelico, in bianco e nero, del pittore aretino Giancarlo Montuschi. Ho trovato un tocco di America con l’opera di Ronnie Cutrone, storico assistente di Andy Warhol, mandato a memoria un “museo” di Ugo Nespolo dove compaiono di spalle due sagome nere -la donna porta i capelli chignon, non può che essere lei- ad ammirare quadri così belli che andrebbero rubati, a suggellare l’amore, proprio come capitò in “Lotta disperata” (n. 15, 1964), storia di un furto clamoroso di un’opera d’arte a suggellare un’unione profonda.

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    L’arte è in perenne bilico tra fact and fiction, realtà e finzione, e la creatività più spesso può varcare i confini. Poi qualche volta accade qualcosa che spariglia e mette in crisi l’equilibrio. Nel 1998 i galleristi Silvia ed Ettore Guastalla mi contattano per scrivere un testo su catalogo di David Fedi, pittore livornese noto anche come street artista con lo pseudonimo Zeb che in quegli anni dipinge ossessivamente l’immagine di Diabolik, in mille modi, evidenziando un particolare, un dettaglio. Quadri che piacciono, ottengono un certo successo, si vendono bene. Eppure qualcosa non funziona, David carattere difficile sembra voler eclissarsi dal mondo dell’arte, fino a sparire davvero. Il 29 maggio 2008 la sua auto viene ritrovata sull’Aurelia vicino a Cecina. Di lui nessuna traccia. C’è chi pensa a un omicidio commissionato dal racket della droga e della prostituzione o al suicidio di un soggetto tendente alla depressione, ma il corpo non è mai stato ritrovato, chi è più ottimista lo immagina lontano, dall’altra parte del mondo a godersela. Si occupa del caso, tuttora irrisolto, il famoso programma Rai “Chi l’ha visto?”. Nessuno ne ha più saputo nulla e ciò che colpisce è dietro questo mistero ci sia l’immagine di Diabolik, dei suoi occhi, delle sue maschere, ripetuta e ancora ripetuta. Magari è un caso o forse no.

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