marco molendini
Marco Molendini per Dagospia
L'inedito perduto è diventata un'abitudine, ma spesso si trasforma in una condanna. E' un vizio della discografia contemporanea (un vizio innescato anni fa dalla crisi del settore, quando tutte le major hanno cominciato a dare l'assalto ai loro magazzini) che non guarda in faccia a niente e nessuno.
Prendiamo quest'inutile Rubberband, pescaggio nei nastri dimenticati di un genio della musica come Miles Davis, frutto di un taglia e cuci di studio senza remore e senza capo né coda, ora messo in circolazione. Dovrebbe essere la celebrazione di un talento perduto, in realtà è un grido di dolore: perché devastare il lavoro del più grande trombettista della storia del jazz, incorniciandolo in canoni banali, soffocando la sua voce e il suo orizzonte musicale?
miles davis rubberband
La risposta la sappiamo, ma il risultato è sconfortante. Con l'unico effetto di far venire una grande voglia di andare ad ascoltare il maestro Miles Davis in uno dei suoi tanti capolavori.
Il materiale di Rubberband nasce da una serie di registrazioni non portate a termine e dall'idea di un progetto (se ne era parlato ai tempi) di disco fatto di hit con ospiti come Chaka Kahn e Al Jarreau.
miles davis
Miles veniva da un album che aveva segnato fortemente la ultima fase della sua musica (You're under arrest, dove c'erano le versioni di due successi pop destinati a diventare suoi cavalli di battaglia, Human nature lanciata da Michaael Jackson e, soprattutto, Time after time di Cindy Lauper, trasformata, piano piano, nei suoi live in un capolavoro). You're under arrest segna anche il suo addio alla Columbia dopo trent'anni.
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Il passaggio alla Warner, profumatamente pagato, è accompagnato dall'uscita di un altro album significativo Tutu (che vinse un Grammy). Nel mezzo, prima di entrare in contatto con Marcus Miller che lo avrebbe aiutato in modo tangibile con Tutu, c'erano state una serie di session in studio. Una sorta di prolungamento del lavoro di You're under arrest (che aveva venduto molto bene) fra sonorità funky e groove.
Sedute sporadiche, più o meno una dozzina, in cui sono stati prodotti brani come Maze, il primo ad essere registrato negli studi Warner, See I see e Give it up, tutti e tre ora infilati in questo Rubberband, cucito con l'intervento di Zane Giles e Randy Hall (che aveva collaborato con Davis nell'81 in The Man With The Horn, il disco del ritorno dopo un periodo di drammatico buio esistenziale), entrambi già coinvolti nel progetto iniziale, e del nipote batterista Vincent Wilburn.
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Cosa resta delle registrazioni originali abbandonate per 34 anni (qualche pezzo veniva usato da Miles nei suoi live e tre come The Maze, Wrinkle e Carnival time sono finiti in vari album live), probabilmente è ben poco. Perché, a sentire il risultato, più o meno, tutti i brani sono stati smontati, tagliati e rimontati, passati attraverso una sorta di pialla che ha risparmiato soltanto qualche breve lampo dell'antico splendore: per esempio, la prima parte di Echoes in time con la tromba e Miles che costruisce alle tastiere un tappeto sonoro sospeso, ma quel breve frammento, chissà perchè, poi viene incollato, inopinatamente, a The wrinkle, un funky tosto, senza alcuna connessione logica o estetica.
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C'è un largo uso di interventi vocali, a partire da Rubberband con la voce della cantante Ledisi. Davvero mediocri la ballad, cantata da Lalah Hathway, So emotional e Paradise, con una tal Medina Johnson, e I love what we make together, pezzi senza idee e personalità: un insulto alla storia di Miles Davis.
Nell'album figurano i musicisti che l'accompagnavano a quei tempi, il chitarrista Mike Stern, il sassofonista Bob Berg, il tastierista Adam Holzman, ma sono stati aboliti quasi tutti i soli, nell'evidente tentativo di omologare il prodotto, secondo criteri discografici. Un vero suicidio musicale: un disco così a chi dovrebbe piacere? A chi ha seguito la carriera di Davis, per il suo genio? A chi ascolta la musica a metraggio? O a nessuno?
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Si dice che la crisi della musica sia dovuta all'assenza di grandi artisti, possiamo aggiungere che un bel contributo lo sta dando il vuoto di teste pensanti nell'industria discografica.
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