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    IL DISCO PIÙ STRAORDINARIO? È DEL 1970, ‘SOUL ON TOP’! – MOLENDINI: FANTASTICA VACANZA DISCOGRAFICA DI JAMES BROWN, INCONTRASTABILE, POTENTE, SCATENATO, CHE TRAVOLGE UNA PATTUGLIA DI JAZZISTI CON IL SUO FUNK E VIOLENTA UN PUGNO DI CLASSICI. BASTA ASCOLTARE LA VERSIONE DI ‘IT'S A MAN'S, MAN'S, MAN'S WORLD’ CON UNA CODA DI QUATTRO MINUTI DOVE MR DYNAMITE SFERZA L'ORCHESTRA, GRIDA, IMPROVVISA, INCITA I FIATI “HIT ME, HIT ME”, COLPITEMI: UNO SPETTACOLO! - VIDEO


     
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    marco molendini foto di bacco marco molendini foto di bacco

    Marco Molendini per Dagospia

     

    L'algoritmo di Spotify non lo andrà mai a scovare ‘Soul on top’, fantastica vacanza discografica di James Brown, incontrastabile, potente, scatenato, bizzarro padrino del soul che travolge una pattuglia di jazzisti con il suo funk e violenta un pugno di classici con la sua voce consumata dalla carta vetrata.

     

    Sepolto dai milioni di titoli di Spotify, ‘Soul on top’ è un sussulto di energia, un brivido musicale: basta ascoltare la versione di ‘It's a man's, man's, man's world’ con una coda di quattro minuti dove Mr Dynamite sferza l'orchestra, grida, improvvisa, incita i fiati «hit me, hit me», colpitemi: uno spettacolo. Non l'ha mai cantato così quel suo cavallo di battaglia.

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    Oppure, poco dopo, ecco servita la reinvenzione di ‘September song’ di Kurt Weill, morbida ballad santificata da Frank Sinatra, trasformata in una sfida rovente. La canzone danza, prende il volo spinta da una fusion resa incandescente da un impasto di ritmi dove si mescolano blues, soul, latin (la boogaloo dance), prosegue in un crescendo contagioso, si sporca («io non traspiro, sudo» chiarì una volta in un'intervista James Brown), si infila in una coda dove l'orchestra offre il tappeto e il mago lo cavalca improvvisando fino all'ultimo grido mentre i fiati vanno alle stelle: non c'è un finale, non ci può essere, la registrazione sfuma e lascia immaginare che quel sabba sia andato avanti all'infinito. Che pezzo, una lezione artistica ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, per freschezza, inventiva, energia.

     

     

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    L'album potrebbe vivere di queste due sole prodezze, ma non è così, testimonianza sfavillante dell'immenso talento di un'artista naturale, insieme primordiale e raffinato che, nel momento di massima potenza artistica (di lì a qualche mese avrebbe inciso un monumento della musica come ‘Sex machine’), decide di fare un disco per divertirsi e fa un capolavoro.

     

    Lo fa rispolverando due vecchie passioni, il jazz e Frank Sinatra (al quale qualche mese prima aveva già dedicato un altro album da riscoprire, Gettin' down to it, dove si avventura anche in una sua versione di Strangers in the night). Lo fa chiamando un vecchio amico come Oliver Nelson, sassofonista, arrangiatore di talento capace di passare dall'avanguardia del jazz alla musica commerciale, e convocando un illustre batterista, Luigi Paulino Alfredo Francesco Antonio, in arte Louie Bellson, supremo specialista di big band, per anni con Duke Ellington.

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    Con loro un'orchestra di 18 elementi (con alcuni gran nomi, dai sassofonisti Ernie Watts e Buddy Collette, al trombonista Jimmy Cleveland, al principe dei contrabbassisti Ray Brown, al fidato Maceo Parker che si incarica dei soli di sassofono). Si chiudono in studio 48 ore e macinano suoni mentre Brown, dentro un box delle dimensioni di una cabina telefonica, non sta fermo un momento.

     

     

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    Così il capolavoro è servito, frutto di un affiatamento carnale con Oliver Nelson che mette a disposizione un'orchestra che non ha imbarazzi a macinare swing e funk e con Louie Bellson che produce una base ritmica sciolta e muscolare allo stesso tempo.

     

    Parlare di capolavoro può suonare banale, con l'abuso che si fa di quel termine distribuito al

    primo stormir di fronde (mi vengono in mente gli incensamenti sperticati per i Manneskin, secondo alcuni la grande rivoluzione del rock), ma la forza di questo disco misconosciuto che, quando venne pubblicato, nel 1970, fu praticamente ignorato, salta agli occhi (anzi alle orecchie) senza incertezze.

     

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    Arrangiamenti, genuinità, divertimento, spontaneità, freschezza, originalità, libertà (la forza del jazz). Il materiale è eterogeneo (da hit country come Your cheatin heart, a un pezzo di Frankie Laine come That's my desire, uno di Doris Day come It's magic, un altro di Sammy Davis come What kind of fool am I, For once in my life del giovane Stevie Wonder) ma non importa, viene passato al setaccio, macinato, cucito su misura su quel prodigio di Mr Dynamite.

     

    Non solo ‘September song’ o ‘It's a man's, man's, man's world’, ma anche un suo successo di qualche anno prima, come Papa's got a brand new bag, anche questo dato alle fiamme con un crescendo finale dove il tema diventa un pretesto (come per gli altri pezzi) mentre la big band spinge i fiati in fuorigiro e quell'interprete magmatico va avanti affidandosi all'estro della sua fantasia.

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    E, dopo 51 anni, se scovi ‘Soul on top’ scavando in quella miniera chiamata Spotify, così ricca al punto di confonderti (ci vuole tempo, passione, curiosità), l'effetto è un messaggio chiaro: quel disco è frutto di una convergenza astrale non facile da ripetere.

     

    La vita turbolenta di James Brown ha disseminato per strada molto talento e molto spreco. Lo sappiamo, lo abbiamo misurato negli anni, ma ascoltandolo si capisce che a questa impresa il padrino del soul fosse profondamente legato, forse perché offriva un lato privato della sua irrefrenabile passione musicale.

     

    james brown, cover di Sinatra "that's Life" james brown, cover di Sinatra "that's Life"

    Tre mesi prima di morire, quel disco, che intanto veniva ripubblicato su cd, lo ha riproposto in una serata live all'Hollywood Bowl divertendosi come un pazzo nonostante gli acciacchi (su Youtube c'è un frammento): gli arrangiamenti erano quelli di Oliver Nelson, Louis Bellson a 82 anni, ha potuto fare solo una partecipazione, l'orchestra era guidata dal contrabbassista Christian McBride.

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