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    IL DIVERTENTE E STRAZIANTE RACCONTO DI COME IL COMICO ROB DELANEY HA SCOPERTO LA MALATTIA DEL TERZO FIGLIO - ''AL COMPLEANNO DEL FRATELLO MAGGIORE, HENRY HA VOMITATO. NIENTE DI CHE, IN FONDO ERA IL TERZO, GLI AVEVO DATO UNA FETTA DI SALAME PICCANTE QUANDO AVEVA APPENA NOVE MESI. NON COME CON IL PRIMOGENITO, QUANDO VAI IN SBATTIMENTO PER QUALSIASI COSA GLI ENTRI IN BOCCA. ORA SONO CONTENTO DI AVERLO FATTO, VISTO CHE È UN ANNO CHE NON MANGIA NIENTE DALLA BOCCA. SOLO DA UN TUBO NELLO STOMACO, UNA MERDA CHE SI CHIAMA PEDIASURE PEPTIDE…''


     
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    VIDEO - SPEZZONI DI ''CATASTROPHE'', IMPERDIBILE SERIE CON PROTAGONISTA ROB DELANEY

     

     

     

     

    VIDEO - ROB DELANEY PARLA DEL FIGLIO HENRY

     

     

     

    MIO FIGLIO HENRY *

    Rob Delaney per www.gqitalia.it

     

    Rob Delaney è stato il primo comico a sfondare su Twitter, e uno dei primi a postare il suo materiale sui social media. Poi dall’America si è trasferito in Inghilterra, dove ha trovato una moglie, tre bambini e una sitcom, «Catastrophe», che gli ha regalato successo e premi: la critica l’ha definita «piena di sorrisi e momenti commoventi». Rob la interpreta e la scrive. Per voi, qui, scrive invece una storia vera, quella del suo terzogenito. Preparatevi a un sorriso «d’oro», e a molti momenti commoventi

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    Sono sull’autobus, sto andando a trovare mio figlio Henry. Devo portarlo in taxi in un’altra clinica di Londra per una visita specialistica che non fanno nell’ospedale in cui vive. Non voglio portarcelo in autobus perché non mi va di sgomitare per tenere alla larga i curiosi quando devo accendere l’aspiratore di saliva e muco per liberare il tubo della tracheotomia. Eppure lui adorerebbe andare in autobus. Ha due anni e, malgrado le disabilità fisiche causate dall’intervento chirurgico che gli ha asportato il tumore al cervello, è mentalmente molto vivace e davanti a un grosso double decker rosso manifesta lo stesso entusiasmo di qualsiasi altro bambino. Un giorno di questi ce lo porto sull’autobus, e se qualcuno è infastidito, cazzo, che si fotta.

     

    Sono così stanco. Mi sento come se la parte anteriore della testa fosse farcita di spazzatura. Il senso di oppressione al torace e alla gola mi ricorda che, per quanto la mia vita sia stressante e destinata a rimanere tale per il prevedibile futuro, potrei almeno perdere qualche chilo per ridurre il sovraccarico di lavoro del cuore, ed evitare di morire di infarto prima dei cinquant’anni.

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    Un tempo il mio più grande incubo era l’idea di rimanere, per qualche motivo, cosciente per l’eternità. Morire, finire all’inferno, in paradiso o chissà dove e rimanere “me”, non potermi spegnere mai – perché sentivo che niente, per quanto meraviglioso o terribile, avrebbe potuto tenermi occupato per tutto quel tempo, voglio dire, per sempre. Forse è per quello che, prima di smettere quindici anni fa, bevevo in modo pesante: per la promessa di poter spegnere, se necessario, l’interruttore del mio stato di veglia. Forse è per quello che ho sempre preferito i pisolini al cibo o ai soldi.

     

    Mi sono liberato della paura quando sono arrivati i figli. Figli maschi: sembra che il mio sperma sappia fare solo quelli. Me ne sono liberato perché sapevo, a questo punto, che potevo farcela anche con l’eternità. Mi sarebbe bastato richiamare alla mente l’immagine di uno di loro, l’odore della testolina, la morbidezza dei piedini nella mia mano, e sarei stato felice. Datemi una Polaroid e sono pronto a durare anche due eternità.

     

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    Certo, vorrei che Henry non fosse in ospedale. Certo, mi fa schifo al cazzo l’idea che i miei figli non vivano sotto lo stesso tetto da più di un anno. Ma sono sempre, sempre felice di andare in ospedale ogni mattina e vederlo. Ogni volta è emozionante entrare nella sua camera e guardarlo e guardarlo mentre vede me. L’operazione gli ha lasciato una paralisi di Bell sul lato sinistro della faccia, che è floscio e cascante. E a causa di una lesione ai nervi l’occhio sinistro è strabico.

     

    Ma il lato destro è incredibilmente espressivo, e si illumina nell’esatto istante in cui varco la soglia. Impossibile avere dubbi sul suo umore, poi. È particolarmente irresistibile quando si arrabbia: il contrasto tra la collera feroce del bambino di due anni su una metà del volto e la placida cicciotta guancia da scoiattolo e l’occhio vagante sull’altra metà è qualcosa che mi fa sempre scoppiare a ridere, lo stesso a mia moglie e a qualsiasi dottore o infermiere sia nella stanza. E se poi sorride, non potete capire. Il sorriso di un bimbo qualunque è già meraviglioso. Il sorriso di un bimbo malato con la paralisi su mezza faccia è d’oro. Soprattutto se il bimbo è mio.

     

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    Poco più di un anno fa, al quinto compleanno del suo fratello maggiore, Henry ha vomitato. Niente di che: era il terzo figlio, avevamo ripulito secchiate di vomito. Gli avevo fatto mangiare dei mirtilli, ne vedevo quindici-venti ancora non digeriti. Gliene avevo dati troppi? Era colpa mia? Aveva solo undici mesi, all’epoca. Ero forse un pessimo genitore e glieli avevo lasciati mangiare solo per farlo stare zitto? Ecco i dubbi che mi passavano per la testa, non il fatto che li avesse rivomitati. In fondo era il terzo figlio, ero sicuro di avergli dato da mangiare una fetta di chorizo quando aveva appena nove mesi. Non come con il primogenito, quando vai in sbattimento per qualsiasi cosa gli entri in bocca.

     

     Vuoi del chorizo? Abbuffati, piccolo. Il chorizo è buono, perché mai dovrei negartelo? E a posteriori sono felice di averglielo lasciato addentare, visto che da un anno non mangia niente dalla bocca. Solo da un tubo nello stomaco, ormai. Una merda che si chiama PediaSure Peptide, e che detesto perché quando la versi dal flacone ha lo stesso esatto odore che ha quando i bambini la rivomitano. E i bambini in chemio vomitano un sacco.

     

    Quella prima vomitata l’abbiamo ripulita, e abbiamo ripreso la festa. L’indomani però Henry ha vomitato un paio di altre volte, così mia moglie ha chiamato un’infermiera, e quella ha detto di portarlo al pronto soccorso, per evitare che si disidratasse. Al pronto soccorso, chissà perché, si sono fatti l’idea che potesse avere un’infezione urinaria. Siccome faticava a bere liquidi senza rivomitarli, mi hanno chiesto di dargli ogni 5 minuti, spremendoglieli in bocca da una siringa, appena 5 millilitri di soluzione elettrolitica, e di tenergli sotto il pene un bicchierino di plastica per raccogliere ogni goccia di urina, in modo da determinare se si trattasse in effetti di infezione.

     

    È stato divertente tenere un bicchiere sotto il suo adorabile pisellino di bimbo di undici mesi, e dargli ogni 5 minuti una spruzzatina di soluzione. Ci guardavamo negli occhi, e non riuscivo a seguire Alla ricerca di Nemo sullo smartphone: avevo paura di distrarmi e di perdere anche solo una goccia di quella preziosa pipì che insisteva a non darmi. Finalmente si è deciso a farla, l’ho lasciata all’infermiera e sono tornato a casa con degli antibiotici. Eravamo d’accordo che ci avrebbero chiamati, se fosse emersa un’infezione.

    rob delaney henry rob delaney henry

     

    Henry ha continuato a vomitare, ma un po’ di meno, e sembrava che finalmente riuscisse a ingerire un po’ più di calorie rispetto a quelle che risputava sul pavimento. Però eravamo piuttosto preoccupati, così l’abbiamo portato dal medico di famiglia. Durante la visita ha inondato lo studio di vomito, e io ero contento che lo avesse fatto davanti al dottore. Ho faticato a resistere alla tentazione di indicare la pozzanghera e dire: «Hai visto, stronzo? È o non è vomito, quello? Ti decidi a fare qualcosa?». Quello che ha fatto è stato fissarci un appuntamento con un gastroenterologo. Cosa che a me sembrava buona e giusta: se c’è vomito, pensavo ancora a quel punto della mia vita, deve esserci un problema allo stomaco.

     

    La frequenza degli episodi si è stabilizzata, così abbiamo deciso di andare per le vacanze di Pasqua, come da progetto iniziale, dai miei familiari negli Stati Uniti. Eravamo lì, nel Massachusetts, quando Henry ha compiuto un anno, e il vomito è peggiorato. Lo abbiamo portato in ospedale dove, dietro pagamento di 500 dollari di anticipo, gli hanno fatto un’ecografia ai reni. Non c’erano segni di infezione, però. Hanno prescritto antibiotici diversi. Intanto eravamo tornati a Londra, sempre più preoccupati. Henry perdeva peso e, a ogni conato, io andavo in paranoia. Gli davo da mangiare con il massimo della calma e della lentezza e, se poi vomitava, mi dicevo che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Se ero stato capace di nutrire i suoi voraci fratelli maggiori, perché con lui non ero in grado?

     

    Avevo visioni di me stesso che raccoglievo il vomito e glielo ributtavo dentro con un imbuto. Il mio bambino diventava sempre più piccolo, e prenderne atto era una tortura. Il suo peso totale era inferiore ai chili che avrei dovuto perdere io. Ma Henry non poteva permettersi di perdere neppure un grammo! Il cibo che vomitava era per me, ormai, la sostanza più preziosa al mondo: scoppiavo in singhiozzi quando lo vedevo sgocciolare a terra. Cercavo di non farlo davanti ai suoi fratelli, ma spesso non ci riuscivo e loro mi chiedevano perché piangessi. Rispondevo: perché ho paura.

     

    rob delaney e la moglie leah rob delaney e la moglie leah

    Il gastroenterologo ha prescritto un farmaco che avrebbe dovuto fermare i conati, ma Henry vomitava comunque. A questo punto eravamo pronti a ricevere cattive notizie. Solo, pregavamo che fosse qualcosa come la celiachia, o una deformazione dell’intestino possibile da operare. Finché il mio amico Brian, che ha figli più grandi dei miei, ci ha raccomandato il suo pediatra. Anni fa era riuscito a diagnosticare a uno dei suoi una misteriosa malattia che nessun altro aveva individuato. E che cazzo, valeva la pena provare.

     

    Come ogni altra volta, sono stato io a portare Henry nello studio del dottor Anson. Mia moglie è una mamma fantastica, ama i nostri figli alla follia, e volentieri l’avrebbe accompagnato. Ma ero stato io a portare Henry al primo appuntamento, così abbiamo mantenuto la routine, quasi fosse, quello, il mio progetto personale. Mia moglie è rimasta a casa con i fratelli più grandi, che avevano rispettivamente cinque e tre anni e richiedevano, francamente, un’attenzione anche maggiore.

     

    Il dottor Anson era un uomo gradevole, probabilmente più vicino ai settanta che ai sessanta. Ho notato il suo sguardo allarmato davanti alle pieghe della pelle di Henry, troppo abbondanti rispetto alle magrissime coscette. Dopo qualche domanda di routine, me ne ha fatta una che ho percepito diversa dalle altre.

    Per caso vomita senza sforzarsi?

    Senza sforzarsi, assolutamente.

     

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    Produce suono nei conati? Ha un’espressione sofferente? O semplicemente vomita, così?

    Semplicemente vomita, così.

    Okay. serve una risonanza magnetica. Della testa.

    Okay. Perché?

    Per accertarci che non ci sia qualcosa che non ci deve essere. Una pressione sul centro emetico, che lo fa vomitare.

    Un tumore, intende?

     

    Dopo una lunga pausa, mi ha risposto: «È un sollievo che l’abbia detto lei».

    Henry ha appena compiuto due anni. Non osavamo sperare che ci sarebbe arrivato, con la prognosi che ci hanno comunicato dopo aver asportato il tumore e averci detto di che tumore si trattava. Una fottuta merda di tumore. Ependimoma, lo chiamano. Uccide la maggior parte dei bambini che ce l’hanno. Se l’avessi avuto io negli Anni 70, all’età di Henry, sarei quasi sicuramente morto. Sareste quasi sicuramente morti anche voi, se siete grandi abbastanza – e messi male abbastanza – per leggere la storia di un lattante con un cancro al cervello.

     

    Ancora oggi è un tumore pericolosissimo, ma le possibilità di sopravvivenza aumentano se si riesce ad asportare chirurgicamente l’intera massa. Quello di Henry era nella fossa cranica posteriore, avviluppato a una serie di nervi importanti. Nervi che il dottor Mallik, il chirurgo, ha dovuto lesionare per estrarlo. Ecco perché la paralisi di Bell e l’occhio strabico. Ed è stato reciso il nervo dell’orecchio sinistro, che quindi è sordo. Tutte cose terribili, ma comunque niente rispetto alla tracheotomia.

     

    Sono stati danneggiati anche i nervi che controllano la deglutizione, quindi Henry non può impedire alla saliva di entrargli nei polmoni. Io e voi ingoiamo inconsapevolmente ogni giorno un litro e mezzo di saliva: perdi il controllo della deglutizione e la polmonite è assicurata. E la polmonite uccide tanto quanto il cancro. Il tubo della tracheotomia impedisce la parola, per cui è da un anno che non sento Henry emettere un suono.

     

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    Un paio di settimane fa, mia moglie mi ha sorpreso a piangere ascoltando una vecchia registrazione audio dei nostri figli più grandi, con Henry nel sottofondo che, prima dell’inizio dell’incubo, gorgoglia e lancia gridolini in fluente baby lingua. Cazzo è musica celestiale, Dio quanto vorrei sentirla ancora. Ma quel tubo nella sua gola preziosa lo ha ammutolito.

     

    L’altro giorno ho dovuto usare tutta la mia forza di adulto per tenerlo fermo su un lettino di ospedale mentre l’infermiera e il dottore gli estraevano il tubo, che si era rotto. Sanguinava tanto, perché la cicatrice si era riaperta, e ho dovuto aspirare il sangue dal foro mentre si apprestavano a inserire il nuovo tubo. Il buco nella sua gola ha più o meno la stessa circonferenza del foro di una pallottola. Una scena terribile, e Henry terrorizzato mi implorava silenziosamente di prenderlo in braccio e portarlo via. Ma non l’ho portato via, l’ho tenuto fermo.

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    Ho fatto amicizia con l’infermiera che si occupa della sua tracheotomia. È stata in missione in Iraq e in Afghanistan, come colonnello della Territorial Army. E il 7 luglio 2005, quando un attacco terroristico a Londra ha ucciso 52 persone, ha trasformato l’ospedale pediatrico di Great Ormond Street in un pronto soccorso per gli adulti. Odio con tutte le mie forze quello che mi ha insegnato a fare al collo del mio bellissimo bambino, ma cazzo sono grato di poter parlare con lei, dopo, perché sento che senza impazzirei.

     

     

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    La storia finisce in modo un po’ brusco, me ne rendo conto. Quella che ho scritto sopra era una traccia di proposta per un libro che pensavo di scrivere, prima che il cancro tornasse, prima di avere la certezza che Henry sarebbe morto. A quel punto, vista la nuova terribile risonanza magnetica, ho smesso di scrivere. Mia moglie e io e i suoi fratelli maggiori avremmo dedicato tutto il tempo che restava a lui, per accertarci che i suoi ultimi mesi fossero felici. E felici sono stati.

     

    Se pubblico il mio racconto oggi è perché il libro era pensato per gli altri genitori di bambini gravemente malati. Li vedevo sempre così stanchi e tristi, come fantasmi nei corridoi degli ospedali, e volevo sapessero che qualcuno capiva e li abbracciava. Voglio ancora dire loro che qualcuno li capisce e li abbraccia. Queste pagine sono per loro. O per voi.

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    Non posso scrivere il libro che pensavo di scrivere, perché la nostra storia ha avuto un epilogo diverso da quello che speravo. Forse scriverò un altro libro, un giorno. Per ora, devo pensare alla mia famiglia e a me, e a piangere la perdita del nostro splendido Henry.

     

     

    * Nota per il lettori: tutto questo, meno gli ultimi due capoversi, l'ho scritto nel maggio 2017. E ho cambiato i nomi, tranne quello di Henry

     

     

    Nota della redazione: Henry è morto all'età di 2 anni e mezzo nel gennaio del 2018. Ha fatto in tempo a sapere, primo tra i figli di Rob Delaney, che la mamma aspettava un nuovo fratellino. Il bambino, un quarto maschietto, è nato l'estate scorsa, ma il padre ha divulgato la notizia solo nei giorni scorsi. «È un po' come se Henry e l'ultimo arrivato abbiano avuto il tempo di "toccarsi"», ha detto.

     

    «La gioia che la nascita porta non mitiga certo lo strazio della perdita, ma al tempo stesso lo strazio della perdita non sminuisce la magia di questa nuova vita. Che merita tutto il nostro amore, e che viene dallo stesso grembo che ci ha datto Henry». Questo testo è stato postato originariamente sulla piattaforma digitale Medium. Rob ha rinunciato a ogni compenso per la pubblicazione in italiano su GQ: ci ha chiesto di devolvere la cifra a Rainbow Trust e Noah’s Ark, due associazioni per l’assistenza ai bambini gravemente malati.

     

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