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    "È IMPORTANTE PROTEGGERE ARTISTI COME MIO PADRE. È COME UN PICASSO: TU CAMBI NEL TEMPO, MA IL QUADRO NON CAMBIA MAI" - IL FIGLIO 57ENNE DI BOB DYLAN, JESSE E IL RAPPORTO CON IL PADRE: "NON È DIFFICILE PORTARE IL SUO COGNOME. IL MIO DOVERE NEI SUOI CONFRONTI È ESSERE SUO FIGLIO. LA COSA IMPORTANTE È CHE LÀ FUORI CI SONO ARTISTI COME LUI O COME TOM WAITS. NON DEVONO SPIEGARTI PERCHÉ VOGLIONO FARE CERTE COSE. DEVI SEMPLICEMENTE ASCOLTARE" 


     
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    JESSE DYLAN JESSE DYLAN

    Estratto dell'articolo di Barbara Visentin per il “Corriere della Sera”

     

    […]Per Jesse Dylan, 57 anni, primo dei quattro figli che il cantautore e premio Nobel ha avuto con la prima moglie Sara Lownds, la missione è più che altro quella di «proteggere un artista così grande» e di essere «semplicemente un figlio». Nella sua carriera di regista, Jesse Dylan ha rivolto allora il suo sguardo a un altro personaggio influente e pieno di mistero: quello di Giorgio Soros, imprenditore e filantropo ungherese, naturalizzato americano, protagonista di «Soros racconta Soros», in arrivo domani alle 21.15 in esclusiva su Sky Documentaries, disponibile on demand e in streaming su Now.

     

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    BOB DYLAN E IL FIGLIO JESSE BOB DYLAN E IL FIGLIO JESSE

    Soros è adorato da alcuni e additato come causa dei mali da altri. Come mai è così controverso?

    «Credo che in parte sia perché, perlomeno qui in America, siamo a disagio con le persone molto ricche che provano a usare il loro denaro per influenzare la politica. Inoltre arriva dall’Ungheria, è un po’ misterioso, non fa tante interviste, ed è come se molte persone venissero indotte erroneamente a concentrare il loro odio su di lui».

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    Che idea si è fatto lei?

    «Penso sia davvero una grande persona. Ammiro il fatto che non vuole imporre il suo pensiero, ma ascolta le persone e cerca di metterle nella condizione di fare quel che vogliono fare. Inoltre penso che quando si tratta di filantropia ci sia l’ossessione di misurare: questo va bene se Bill Gates prova a eliminare un virus, si può calcolare quante persone in meno si ammalano, ma quando si tratta di arte e di libertà di esprimersi, come quel che fa George, non si può misurare il suo contributo, eppure è estremamente importante».

     

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    Farebbe un documentario su suo padre?

    «Credo che ci abbia pensato molto bene Martin Scorsese, addirittura due volte. Penso che quelle siano le dichiarazioni migliori e definitive su mio padre».

     

    […] Da poco è passato per l’Italia, l’abbiamo intravisto sul palco nella penombra.

    «[…] È un grande artista e continua a esserlo. Le persone magari vorrebbero sentire alcune canzoni in particolare, ma lui fa quel che vuole. Vieta i telefoni perché credo desideri che la gente viva il momento, insieme. Il nostro modo di avvicinarsi agli artisti oggi è cambiato, ma ci sono ancora alcuni di loro che fanno grande arte e riescono a dare grande ispirazione».

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    È difficile portare il suo cognome?

    «No, assolutamente. Mio padre è una persona buona e generosa, un’anima sensibile, e il mio dovere nei suoi confronti è essere semplicemente suo figlio. La cosa importante è che là fuori ci sono artisti come lui o come Tom Waits, con cui mi è capitato di lavorare, di cui non dobbiamo capire tutto. Non devono spiegarti perché vogliono fare certe cose e tu devi semplicemente ascoltare».

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    Va accettato il loro mistero quindi?

     «Sì, e specialmente in periodi come questo è importante proteggere artisti come loro. È un’abitudine relativamente recente quella di cercare di capire tutto di tutti, ma non è sempre necessario. È importante invece che ci siano ancora grandi artisti come Neil Young o come mio padre che fanno grande musica e basta. È come guardare un Picasso: tu cambi nel tempo, ma il quadro non cambia mai, è la bellezza dell’arte».

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