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    CHI ERANO GLI “SKINHEAD” - IL FOTOGRAFO GAVIN WATSON RACCOGLIE I SUOI MIGLIORI SCATTI PER RACCONTARE LA SUBCULTURA SKINHEAD NATA NEL ’69 IN GRAN BRETAGNA - “AVEVAMO L'ORGOGLIO DELL'APPARTENENZA ALLA WORKING CLASS; ARRIVAVAMO DALLE BORGATE E CI PIACEVA L'IDEA DI FARE PAURA MA LA VERITÀ È CHE NON CONTAVAMO NULLA, NON AVEVAMO POTERE. CE L'HANNO I TEENAGER DI OGGI CON INTERNET. SENZA L'ITALIA NON CI SAREBBERO STATI GLI SKINHEAD PERCHE'..." - FOTOGALLERY


     
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    skinhead le foto di gavin watson skinhead le foto di gavin watson

    Alba Solaro per “il Venerdì - la Repubblica”

     

    «Senza l'Italia non ci sarebbero stati gli skinhead». Scusi? «Sì, l'Italia è stata fondamentale. Perché senza i vostri abiti maschili anni Sessanta, senza le Vespe, le Lambrette, il caffè espresso al bar, non ci sarebbero stati i Mods. E senza i Mods che a un certo punto si sono stufati della Swingin London e sono tornati alle radici, non ci sarebbero stati neanche gli Skinhead».

     

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    Chi l' avrebbe mai detto, c'è un filo che parte dal cappuccino e arriva dritto alle teste rasate. Il ragionamento di Gavin Watson non fa una piega. Classe 1965, Watson è un fotografo inglese che per anni ha indossato gli anfibi e le bretelle sulla polo stretta, jeans a sigaretta e bomber militare; la divisa d'ordinanza dello skin.

     

    Non lo fa più, «è passato tanto di quel tempo sono in quell' età dove ti sembra stupendo trascorrere un sacco di tempo coi nipotini» ridacchia. Gli è rimasta comunque la parlata cockney ormai rara anche nei pub più ammuffiti. Oh! What Fun We Had, il suo libro di foto che Damiani pubblica oggi (a cura di Rini Giannaki, pp. 176, euro 34) è come un album di famiglia. Ci sono immagini di un mondo che lui ha già raccontato in volumi come Skins & Punks e We Were Here 79-89; lo sfogli e senti lo stesso struggimento che provi quando guardi le foto dei tuoi genitori da piccoli. Un misto di nostalgia e sorpresa.

     

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    Perché un libro di foto sugli skinhead oggi? Ed è un caso che arrivi quasi in contemporanea con l'uscita di un classico di quella cultura, vale a dire Spirit of '69 di George Marshall? «Sul serio? Ci sono anch'io in quel libro!» Watson sbotta, ha una risata fragorosa. «Questa è una buona, anzi un'ottima notizia. Perché io faccio il fotografo, non l'antropologo, e ne ho le scatole piene di rispondere a quelli che chiedono: cosa vuol dire essere uno skinhead? Leggetevi Spirit of '69, gli rispondo sempre. Oppure andate a guardarvi This Is England».

     

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    I primi scatti, bianco e nero, sono di uno skin in posa accanto a una serranda piena di scritte spray, un ragazzino in posa nel tinello casalingo sotto a un quadro con una scena di caccia alla volpe: una ragazza skin che si asciuga col phon la frangetta; un rude boy nero con in spalla un poderoso ghetto blaster.

     

    C'è stato un tempo in cui i naziskin ancora non esistevano o se esistevano comunque non definivano l'identità di questi adolescenti; un tempo inclusivo dove la musica, ska, beat o rocksteady, teneva insieme tutto. Arrivano foto a colori di ragazzini che si rasano tra loro; fidanzati che si baciano sul divano, tappezzerie floreali, ferrovie, cortili vuoti; uno skin che fa le bolle di sapone. Se non rischiasse di suonare troppo stucchevole per una cultura così orgogliosamente aggressiva, verrebbe voglia di usare la parola: poetico.

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    «Usiamola pure. Mi chiedeva perché tutto questo interesse per gli skinhead» dice Watson. «La risposta potrebbe essere che oggi quello ci appare come un tempo più semplice. E anche più autentico. Da lontano tutto ti sembra più romantico. Glamourizziamo una realtà che era magari merdosa ma oggi ci appare preferibile al finto e fotocopiato mondo post anni 90».

     

    Era davvero più semplice la società alla fine dei 70? «In un certo senso sì. C' erano solo tre canali televisivi, e per fare le telefonate dovevi mettere il dito in un buco (ride, ndr.). C' era la Thatcher e si discuteva molto di politica; andavi al pub e litigavi con uno del National Front o con un sostenitore dell' Ira, poi ti facevi una birra con loro».

    skinhead le foto di gavin watson skinhead le foto di gavin watson

     

    Oh! What Fun We Had viene da un verso di una delle più popolari canzoni dei Madness, Baggy Trousers; parla della scuola, anni passati a fare i cretini in classe, aspettare la campanella della ricreazione, sembrava tutto così orribile e invece quanto ci siamo divertiti. Già, anche il divertimento apparteneva a una grammatica molto più semplice del presente.

     

    Gavin Watson non ha mai finito la scuola, «mi hanno buttato fuori a 15 anni», ma ai grandi magazzini si era comprato una macchinetta fotografica, la Hanimex. «Mi divertivo a ritrarre i miei amici e quelli di mio fratello Neville, e i ragazzi che abitavano con noi nelle case popolari di High Wycombe, una cinquantina di chilometri da Londra. Eravamo tutti skinhead: io mica stavo facendo le foto alla scena skin, stavo solo facendo le foto agli amici».

     

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    Se lo sguardo racconta il mondo dal di dentro, non c'è spazio per lo stereotipo, ovviamente ci sono anche scatti con mazze da baseball agitate minacciosamente, svastiche disegnate sulle pareti, qualche passamontagna, un mitra giocattolo, un paio di volti truci in mezzo a sorrisi, birrette al sole e sigarette condivise.

     

    «Gli skinhead, come era stato per i Teddy Boys, avevano l'orgoglio dell' appartenenza alla working class; a differenza dei Mods non cercavano di cancellare le origini, anzi la sottolineavano con lo stile. Arrivavamo dalle borgate e l' aggressività era un modo per dirlo; essere skinhead ci piaceva per la musica e per il modo di vestire. Io lo sono diventato perché mi piacevano i Madness.

     

    Prima c'era il punk che era molto punk, poi d'un colpo è arrivata la Two Tone Records, e quel suono era perfetto per tenere insieme una generazione di ragazzi bianchi e neri cresciuti insieme. Ci piaceva l'idea di fare paura, appoggiati ai muretti con gli scarponi bene in vista; ma la verità è che all' epoca gli skinhead non contavano nulla. A nessuno gliene importava di noi. Facevamo i minacciosi ma non avevamo alcun potere. Ce l' hanno molto di più i teenager di adesso, che hanno internet a disposizione».

     

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    Watson, che poi negli anni ha lavorato molto nella fotografia musicale e anche nella moda, firmando campagne per Dr. Martens e Aquascutum, ha fotografato quella scena fino ai 28 anni, poi si è trasferito a Londra e molti di quei ragazzi li ha persi di vista. «Tanti sono anche morti, girava troppa droga pesante».

     

    È rimasto questo archivio, oggi impressionante, di foto che valgono proprio perché non erano state commissionate o fatte per mestiere, e in questo sono uniche. «Ricorda le instamatic che tutti usavamo allora? Ecco, la maggior parte della gente quando traslocava o divorziava buttava via le scatole coi rullini. Io ho sempre tenuto tutto». Il fotografo Gavin Watson ha raccolto gli scatti giovanili che ritraggono i suoi amici nell' Inghilterra anni 80.

     

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    «Venivamo dalle periferie e ci piaceva far paura. Quanto ci siamo divertiti» «Diventammo teste rasate per la musica e i vestiti. Io perché mi piacevano i Madness» «quella realtà merdosa ci appare meglio del finto e fotocopiato mondo post anni 90»

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