1 - IL DUELLO APPLE-FBI
Matthew Braga per “Vocativ”
DIANNE FEINSTEIN
La senatrice democratica Dianne Feinstein non ha preso bene il rifiuto di Apple a collaborare con il governo, che vuole accedere ai dati dell’iPhone di uno degli attentatori della strage di San Bernardino. Promette che se la Apple non coopererà, il Congresso farà leggi-incubo per l’industria del tech, tipo “una porta di sicurezza obbligatoria introdotta nei software affinché la polizia possa avere accesso ai dati”.
La FBI ha bisogno di assistenza per accedere ai dati dell’ iPhone 5c usato a dicembre da uno degli stragisti, chiede una mano all’azienda di Cupertino per creare un software che ‘cracchi’ la password, ma, nonostante le garanzie della polizia, che promette di usare l’eventuale software solo per questo caso, Tim Cook ha messo i paletti per tutelare la privacy dei suoi clienti.
tim cook e steve jobs
Non intente permettere l’estrazione forzata di dati protetti da crittografia perché, se il software (attualmente esistente) finisse nelle mani sbagliate, sarebbe in grado di sbloccare qualsiasi iPhone.
In pratica si chiede ad Apple di hackerare se stessa, rimuovendo i meccanismi di sicurezza e creando un dispositivo che lo faccia. Per Cook sarebbe “un precedente pericoloso”, inoltre la Costituzione americana non permette al governo di costringere le aziende ad hackerare i dispositivi dei propri clienti. E’ una situazione impossibile. Potrà Apple difendersi dal più grande avversario mai avuto?
2. TIM COOK NON «APRE LA PORTA» DEI SUOI SMARTPHONE A CHI INDAGA SULLA STRAGE DI SAN BERNARDINO
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Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Il diritto-dovere di uno Stato di proteggere con tutti i mezzi i suoi cittadini contro il diritto di questi stessi cittadini a non vedere i propri dati personali, compresi quelli relativi alla salute e gli affari privati, frugati dal governo e, potenzialmente, anche da chiunque altro.
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O, se preferite, il rischio che la chiave anti-privacy che dovrebbe essere costruita da Apple per consentire all' Fbi di indagare sui terroristi della strage di San Bernardino venga un giorno reclamata (o rubata) da regimi dittatoriali per farne un uso ben peggiore, contro il rischio che i giganti della Silicon Valley (Apple e Google in primo luogo) neghino agli inquirenti l' accesso a dati criptati preziosi per combattere terroristi e criminali comuni non per difendere un principio sacrosanto, ma per proteggere un ricco business: quello della sicurezza dei dati.
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A un primo sguardo il caso esploso ieri con la decisione della Apple di respingere l' ordinanza dei giudice federale di Los Angeles che la obbliga a fornire all' Fbi tutta l' assistenza necessaria per decriptare i dati contenuti nell' iPhone di uno degli attentatori della strage di San Bernardino rappresenta l' inammissibile ribellione di una società privata ai poteri sovrani dello Stato che, per difendere i cittadini da minacce esterne e interne, ha non solo il monopolio dell' uso della forza ma anche quello di uno spionaggio che, se necessario, può violare i confini della privacy.
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E la Apple che, come altri gruppi della Silicon Valley, in passato ha accettato compromessi con regimi dittatoriali pur di non perdere l' accesso a mercati importanti, non può certo ergersi a garante supremo dei diritti dei cittadini.
Approfondendo una questione che ha aspetti tecnici e anche implicazioni politiche molto complessi, le certezze iniziali vacillano.
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Da un punto di vista giuridico è facile prevedere che la disputa - alimentata anche dal fatto che il magistrato, per giustificare il suo ordine, ha dovuto fare ricorso a una legge del 1789, l' anno della rivoluzione francese - finirà davanti alla Corte Suprema: un organo che ha tempi di decisione molto lunghi.
Da un punto di vista tecnico, invece, il nodo più delicato da sciogliere è quello della natura dell' intervento richiesto dalla magistratura.
«Chiediamo una soluzione da usare solo in questo caso specifico, non una backdoor (cioè una "porta posteriore" di accesso illimitato)», assicura il giudice Sheri Pym che, nell' emettere la sua ordinanza, ha anche concesso alla società di Tim Cook un certo margine di manovra: può respingere la richiesta della magistratura se è in grado di dimostrare che è troppo onerosa o se riesce a proporre una soluzione alternativa per arrivare allo stesso risultato.
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Nella sua risposta, però, Tim Cook si espone in prima persona con una lettera ai clienti di Apple nella quale non solo respinge la richiesta del giudice e non offre una soluzione alternativa, ma sostiene che ciò che viene richiesto è esattamente ciò che il governo nega di volere: una backdoor che dà accesso a tutti gli iPhone, non a un solo apparecchio.
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Si tratta di una porta attraverso la quale domani potrebbero passare altri poteri federali per altre indagini e che, se rubata dagli hacker (evento non improbabile visto quello che sta accadendo in questo campo), rischia di far cadere nelle mani di chiunque le informazioni più personali (conversazioni, foto, contatti, dati sanitari, finanziari, fiscali) che ognuno di noi archivia nel suo smartphone.
Il punto è che nel 2014, dopo il caso Snowden, Apple ha introdotto un sistema di criptaggio che nemmeno lei può infrangere.
Per superare questo blocco ora il magistrato chiede all' azienda di produrre un software parallelo per sabotare i meccanismi di sicurezza escogitati dagli stessi ingegneri della Apple, a partire dall' autodistruzione della memoria in caso di attacco ai codici d' accesso: «È come se nel mondo fisico mi chiedessero di produrre l' equivalente di una chiave in grado di aprire centinaia di milioni di serrature» dice Tim Cook.
tim cook apple
Una questione delicata destinata a dividere l' opinione pubblica (per metà con Apple e per metà col governo, secondo i sondaggi fin qui eseguiti) e la politica: il giudice ha dovuto riesumare una legge di 225 anni fa perché il Congresso su questa materia non riesce a legiferare.
Basta uno sguardo alle discussioni di questi giorni per capire il perché: ad un recente dibattito democratico Hillary Clinton e Bernie Sanders hanno dato risposte vaghe a una domanda precisa su questo nodo.
E ieri, sull' altro fronte, mentre Donald Trump si è detto per una volta d' accordo col governo e ha condannato la ribellione di Apple, dall' American Enterprise Institute, il think tank ideologico della destra, è arrivato un attestato di solidarietà all' impostazione «libertaria» di Tim Cook.
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2 - QUANDO GLI INVESTIGATORI ITALIANI HANNO CHIESTO AIUTO A CUPERTINO: DAL MISTERO DI NICOLETTA AL VIDEO SULLA MORTE DI CAROLINA PICCHIO
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera”
Nessun hacker, nessun software, nessun investigatore riusciva a sbloccare l' iPhone 5 di Nicoletta Figini, uccisa nel suo appartamento di Città Studi, a Milano.
Era il luglio del 2013 e il pm Mauro Clerici decise di rivolgersi a Cupertino, al quartier generale della Apple in California, perché in quel telefonino c' era forse il nome dell' assassino.
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La risposta: «Dovete portarci il dispositivo, ci vuole l' ordine di un giudice e il sistema operativo non dev' essere l' ultimo». L' ufficiale di polizia giudiziaria italiano volò in California, Apple aprì la back door del cellulare perché non era ancora così impenetrabile (iOS7), ma lì dentro, nel mondo iPhone di Nicoletta, non trovò alcuna risposta utile alla soluzione del giallo, che fu archiviato senza un colpevole.
Anche il caso di Carolina Picchio, la studentessa quattordicenne di Novara morta suicida il 5 gennaio 2013 per un video girato su Facebook e costato il processo a cinque coetanei, ha conosciuto la Silicon Valley.
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«Ci sono andato il 23 febbraio del 2014 per conto della Procura - ricorda Giuseppe Dezzani, consulente informatico di vari pubblici ministeri -. Hanno estratto i contenuti dell' iPhone 4s (iOS6) di Carolina. Era stato possibile perché il sistema non era ancora evoluto».
Ma poi Apple ha creato la blindatura con iOS8 e iOS9 e ne ha fatto un valore commerciale. E nessun investigatore ha potuto più bussare alla porta di Cupertino.