Alessandro Barbera per “La Stampa”
GIORGIA MELONI PNRR
Gli ultimi ostacoli sono l'assunzione di nuovi ricercatori e l'assegnazione di alloggi per gli studenti universitari: la Commissione europea ha chiesto dettagli su chi li otterrà e dove. Il piano nazionale delle riforme è fatto anche di questo. Il ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto oggi sarà a Palazzo Chigi per firmare le ultime carte, entro il 31 dicembre partirà la richiesta formale alla Commissione europea per l'assegnazione della terza rata da venti miliardi del Recovery Plan, la seconda di quest' anno.
«Il lavoro è fatto, con Bruxelles non ci saranno difficoltà», spiega uno dei funzionari impegnati fino all'ultimo nel negoziato. Gli obiettivi da raggiungere nel secondo semestre del 2022 erano cinquantacinque, alcuni rilevantissimi, altri meno. L'ostacolo più difficile era la riforma dei servizi pubblici locali, ma nel complicato contratto firmato dall'Italia con l'Unione ci sono anche impegni più minuti, come il miglioramento dei «criteri ambientali minimi per gli eventi culturali» come l'uso di materiali riciclabili per i palcoscenici.
PNRR Next Generation EU
«Vi ho dovuto stalkerizzare uno ad uno, ma ci siamo», spiegava ieri Fitto ad un collega ministro. Per tagliare il traguardo e non rischiare di perdere i finanziamenti il governo di Giorgia Meloni ha dovuto fare di necessità virtù. La norma sull'uso dei Pos introdotta da Draghi, ad esempio: era uno degli obiettivi del primo semestre di quest' anno, dunque se ci fosse stato un allentamento delle sanzioni agli esercenti che lo rifiutano, si sarebbe messa a rischio la rata del secondo.
Per completare il lavoro iniziato dal predecessore, la premier ha dovuto accelerare alcune riforme. Quelle più contestate riguardano il processo civile. Poco prima di Natale il Consiglio nazionale forense ha chiesto (senza successo) di stralciare la norma introdotta nella Finanziaria che imporrà dal primo marzo (invece del 30 giugno) di rendere più veloci le fasi preliminari del contraddittorio. Come è noto, i tempi italiani sono fra i peggiori dell'Unione.
raffaele fitto giancarlo giorgetti paolo gentiloni
La parte più difficile del Recovery su cui ora si concentrerà il lavoro di Fitto riguarda la cosiddetta «messa a terra» del piano. Se le stime fatte dal governo Draghi fossero state rispettate, l'Italia avrebbe già dovuto spendere quaranta miliardi di euro. Le previsioni di spesa in mano a Fitto parlano nella più rosea delle ipotesi della metà. Per questo, entro la fine di gennaio, ci sarà un decreto per rimettere mano al processo decisionale.
Oggi l'impianto del Recovery ruota attorno a quattro strutture burocratiche: il «servizio centrale del Pnrr» presso il ministero del Tesoro (lo gestisce Carmine di Nuzzo della Ragioneria generale dello Stato), la «segreteria tecnica della cabina di regia» a Palazzo Chigi guidata da Chiara Goretti, «l'unità per la regolazione» diretta da Nicola Lupo, a cui si aggiunge un responsabile per ciascun ministero di spesa. Fitto, a cui sono state assegnate tutte le deleghe, ha già ottenuto l'ultima parola sul lavoro della struttura del Tesoro, sulla carta in capo a Giancarlo Giorgetti.
RAFFAELE FITTO GIORGIA MELONI
Per ottenere ulteriori cambiamenti Fitto deve accordarsi con la Commissione europea, perché anche la governance del piano è parte degli impegni grazie ai quali l'Italia riceverà duecento miliardi di euro di qui al 2026. Quel che conta è anzitutto non perdere il flusso dei finanziamenti: per le banche d'affari i quaranta miliardi di euro garantiti ogni anno dal Recovery sono un puntello ai conti pubblici italiani in un momento di forte rialzo dei tassi di interesse.
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A marzo il governo chiederà a Bruxelles la modifica di alcuni progetti, un ulteriore aggiornamento dei costi (aumentati a causa dell'inflazione) e la revisione dei tempi per la consegna di molti appalti. L'unica cosa che il governo non può chiedere di cambiare è la scadenza finale: in ogni caso il piano e ciascun appalto dovranno essere completati entro dicembre 2026.
Non sarà un negoziato semplice, perché i fondi restano quelli a disposizione e nel frattempo c'è chi ha cambiato idea e chiede soldi inizialmente rifiutati: è il caso della Spagna, che aveva fin qui accettato solo quelli a fondo perduto e ora vuole - come l'Italia - risorse a prestito
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